Il furto delle Black Hills
A cura di Luca Barbieri
Il popolo Lakota le chiamava Paha Sapa; erano le loro montagne sacre, il centro del mondo, la dimora degli dei, il luogo dove i giovani andavano in meditazione per ottenere una visione e parlare col Grande Spirito. Per i bianchi, invece, erano le Colline Nere, per via del colore scuro delle fitte foreste che le ricoprivano; nulla di più che una terra vergine da saccheggiare. Ed è quello che puntualmente avvenne quando, il 27 Agosto 1874, l’ Inter Ocean di Chicago, per primo, titolò a caratteri cubitali: “Gold!”.
La notizia era di quelle elettrizzanti ed un fremito scosse la nazione messa in ginocchio dalla crisi economica. Se, come si diceva, le Black Hills erano zeppe d’oro, non si poteva certo lasciarle in mano agli indiani.
Il quotidiano, oltretutto, suggeriva che era terribilmente facile scovarlo visto che “si trovava tra l’erba, sotto gli zoccoli dei cavalli” (frase mutuata dalla relazione del tenente Colonnello George Armstrong Custer scritta al ritorno dalla sua spedizione esplorativa della regione delle Black Hills nel Giugno del 1874).
L’oro nelle Colline Nere: un cerino gettato in un covone di paglia secca. L’America, di conseguenza, non potè che prendere fuoco, sguinzagliando il meglio della sua gente in quella che fu una delle ultime grandi corse all’oro, o, per essere più precisi, una delle più infamanti violenze esercitate sul popolo indiano.
Custer a caccia nelle Black Hills
La faccenda fu davvero sporca; non di guerra, ma di furto e vero e proprio si dovrebbe parlare.
Le Paha Sapa, infatti, appartenevano agli indiani perché così aveva stabilito il presidente degli Stati Uniti il quale, nel 1868, le aveva giudicate prive di valore. Certo, all’epoca non si poteva sapere che nascondessero nelle proprie viscere una gran quantità di metallo biondo, ma un patto è un patto e tale dovrebbe restare. No, nient’affatto, roba da vecchi nobiluomini incartapecoriti: una giovane nazione come gli USA è legittimata dalla Provvidenza a prendersi ciò che vuole, ciò che le spetta per manifesto destino, anche con la forza se necessario. La guerra per strapparle ai Sioux fu dunque voluta esclusivamente dai bianchi, che dapprima cercarono ogni pretesto per provocarli, usando squallidi trucchi per comprare le colline ad un prezzo irrisorio, e poi, quando si resero conto che gli indiani non avrebbero ceduto ai loro ricatti, si limitarono a dichiararli “ostili” e invasero il loro territorio per sottometterli.
Una spedizione nelle Black Hills (1874)
All’inizio dell’autunno 1874 i Sioux che erano andati a cacciare nel Nord, e avevano così potuto osservare le lunghe colonne di soldati e carri della spedizione di Custer che violentavano la loro terra sacra, tornarono all’agenzia della riserva, diretta da un certo Saville. Erano furiosi per quanto accaduto e parlavano apertamente di formare una spedizione di guerra per scacciare gli invasori. La situazione era potenzialmente esplosiva ma Nuvola Rossa seppe rasserenare gli animi con parole di pace. Il vecchio capo nutriva ancora grande fiducia nel Padre Bianco ed era convinto che avrebbe mantenuto la sua parola. Il trattato che aveva stipulato era chiaro e non erano passati che sei anni, in fondo. Come avrebbe potuto rimangiarsi quella promessa a così breve distanza?
Se la reazione dei giovani Sioux può sembrarvi esagerata, meditate sulle parole di Alto Mandan, rivolte ai bianchi, che colgono appieno il giusto paragone: “Noi eravamo seduti e li abbiamo visti passare di qui a prendere l’oro, e non abbiamo detto nulla (…) Amici miei, quando andai a Washington, andai nella vostra casa del denaro, e vi erano alcuni giovani con me, ma nessuno di loro portò via del denaro da quella casa mentre io ero con loro.
Un guerriero Sioux
Nello stesso tempo, quando il popolo del Grande Padre viene nel mio territorio, entra nella mia casa del denaro (i Black Hills, che erano, usando le parole di Orso Macchiato, “la cassaforte” del popolo Lakota, per via dell’oro che, se venduto ad un giusto prezzo, avrebbe potuto mantenere gli indiani per molte generazioni, n.d.A.) e porta via il denaro”.
Chi non s’infurierebbe per qualcuno che gli entra in casa e gli ruba ciò che ha di prezioso? Perché gli indiani non erano affatto stupidi né ingenui. Avevano compreso benissimo il valore economico delle Black Hills, tanto che il già citato Orso Macchiato chiese in cambio settanta milioni di dollari, da mettere in “qualche posto a un tasso di interesse”, così da poter poi comprare del bestiame, mentre Due Orsi voleva che il popolo Lakota venisse mantenuto a vita in considerazione della gran quantità d’oro che sarebbe stata estratta.
Il governo americano offrì invece quattrocentomila dollari all’anno per le concessioni minerarie oppure sei milioni per l’acquisto di tutta la regione. La maggior parte dei Sioux, in ogni caso, non avevano alcuna intenzione di vendere; “neanche tanto così”, come dichiarò Toro Seduto sollevando una manciata di terra dal suolo. D’altro canto Cavallo Pazzo aveva già perentoriamente affermato che “non si vende la terra sulla quale la gente cammina”.
Come già detto, le Paha Sapa erano qualcosa di molto di più di una semplice riserva di caccia: Antilope Che Corre affermò che “le dieci nazioni Sioux guardano ad esse come al centro della loro terra”.
Gall, Crawler, Crow King, Running Antelope e Rain In The Face
Un luogo sacro, mistico, dove vivere e morire. “Tutti i miei parenti sono sepolti qui”, disse Collana di Lupo, “e quando cadrò a pezzi, desidero cadere a pezzi qui”. Sordi a queste parole ed incuranti del trattato da loro stessi firmato, gli americani ebbero la sfrontatezza di pretendere che gli indiani vendessero la loro terra in cambio di pochi spiccioli, o almeno che gliela prestassero per un po’, giusto il tempo di svuotarla di ogni minerale prezioso. Un legittimo rifiuto di cedere qualcosa di proprio, sarebbe stato interpretato come una dichiarazione di guerra. Questo acquisto forzato venne “presentato agli indiani come una cosa definitiva”, per usare le parole dei membri della commissione incaricata dal governo di trattare con i Sioux: prendere o lasciare, dunque. E lasciare significava essere considerati “ostili”.
Nella Luna delle Foglie che Cadono la situazione si inasprì ulteriormente, a causa dell’ottusità dell’agente indiano.
Il 22 Ottobre Mr. Saville, ignorando completamente l’astio che covava nella riserva nei confronti delle “giacche blu”, volle issare una bandiera americana sull’agenzia, e, dunque, ordinò ad alcuni suoi dipendenti di abbattere un grande pino e ricavarci un palo.
Una spettacolare vista delle Black Hills
La bandiera non era che un innocuo straccio colorato, ma ai Sioux ricordava i vessilli che Custer aveva fatto sventolare al di sopra delle sue tende, negli accampamenti abusivi delle Black Hills. Per questo motivo gli indiani protestarono con Saville, negandogli il permesso di fare ciò che voleva, ma non vennero nemmeno ascoltati.
Il giorno dopo una banda di giovani guerrieri piombò sull’agenzia e, a colpi d’ascia, fece rapidamente a pezzi il palo. Saville, non sapendo come meglio reagire, mandò un corriere a Fort Robinson per chiedere un intervento armato dei soldati.
I guerrieri accolsero i militari con squillanti urla di sfida e con i volti dipinti dai colori di guerra, li circondarono e scaricarono in aria i loro fucili. Era una semplice dimostrazione di forza, ma rischiava di tramutarsi in uno scontro. Per fortuna l’ufficiale che comandava i ventisei cavalleggeri, il tenente Emmet Crawford, mantenne il proprio sangue freddo e continuò, imperturbabile, la sua marcia verso l’agenzia.
Un accampamento
Il peggio venne evitato da un’altra banda di Sioux, guidata da Giovane Uomo Che Teme I Suoi Cavalli, che attraversò la cortina dei provocatori e scortò la compagnia di soldati fino all’agenzia. Non si arrivò ad una battaglia, ma l’effetto ottenuto dall’improvvido comportamento di Saville fu l’abbandono della riserva da parte di un gran numero di giovani guerrieri che rifiutavano la guida di Nuvola Rossa e volevano unirsi a Toro Seduto e Cavallo Pazzo.
La guerra sarebbe iniziata di lì a poco, nell’inverno successivo.
I Sioux ottennero alcune vittorie, sul Rosebud e sul Little Big Horn; ma sarebbe stato impensabile sconfiggere la poderosa macchina bellica statunitense.
Ignoro come il popolo americano non si vergogni fino alla radice dei capelli per aver aggredito popolazioni pacifiche rubando la loro terra, ed anzi abbia trasformato il campo di battaglia del Little Big Horn in monumento nazionale, edificando addirittura un museo celebrativo di Custer. Young Man Afraid Of His Horses
Dovrebbero sentirsi imbarazzati nel rievocare quegli avvenimenti, e non, al contrario, fieri ed orgogliosi. Probabilmente ha ragione Rino Albertarelli nell’introduzione della sua graphic novel “Toro Seduto. Il profeta dei Sioux” nel dire che “il popolo che si considera il meno militarista del mondo è, paradossalmente, il più sensibile alle sconfitte militari” e che i diritti calpestati degli indiani cessano di aver valore “per l’americano medio dal momento che essi batterono clamorosamente generali patentati come Crook e Custer. Appartenere a un’altra razza continua ad essere una colpa; aver combattuto la nazione americana è un’aggravante specifica; aver vinto delle battaglie è un sacrilegio imperdonabile”.
Curioso questo modo di interpretare la storia da parte di un popolo che venera la proprietà privata, fino al punto di consentire il legittimo omicidio di chi vi si introduce senza autorizzazione. Questo concetto, però, non sembra estensibile ai Lakota, ai quali venne chiesto, in parole povere, di lasciarsi derubare ed uccidere senza troppe proteste e, soprattutto, senza reagire. Non furono gli indiani a recarsi a Boston, incendiando case e svaligiando banche; furono gli americani ad invadere le Black Hills, senza alcun’altra ragione che una squallida avidità di terra e denaro. Gli uomini liberi delle Grandi Pianure furono scopertamente oggetto di una vergognosa campagna di spoliazione e sterminio, per cui fecero ciò che avrebbe fatto chiunque altro: combatterono per difendere la loro terra.
Così cantavano i Sioux nell’autunno del loro popolo: “Le Colline nere sono la mia terra e io l’amo / E chiunque ci mette il piede dentro / Udrà questo fucile!”