La scorciatoia di Meek (Meek’s Cutoff)
A cura di Domenico Rizzi
“Meek’s Cutoff”, letteralmente “La scorciatoia di Meek”, è una dimostrazione di come si possa realizzare un film western pur avendo in tasca soltanto i soldi…per la spesa! Ci è riuscita Kelly Reichardt, regista americana già autrice di altre pellicole di discreto successo, fra le quali “River of Grass” del 1994, attingendo ad una vicenda reale che ha opportunamente romanzato, conservando il clichè del personaggio storico di Stephen Meek, esploratore, cacciatore e guida all’epoca della Frontiera.
La trama è di una semplicità disarmante. Un pugno di emigranti, con 3 carri coperti trainati da buoi, muli e cavalli, è diretta verso la valle dello Willamette, nell’Oregon.
L’anno è il 1845 e la trama si sviluppa interamente lungo l’Oregon Trail, dalla quale sono già transitate fin dal 1830 alcune carovane di coraggiosi pionieri.
Dal 1843 al 1848 la Willamette Valley si popolò di 5.000 abitanti di razza bianca, quasi tutti provenienti dalle contrade dell’Est e alla metà del secolo l’Oregon aveva raggiunto una popolazione di 13.300 persone.
Le guide dei convogli erano sempre dei mountain men, gente che si era spinta nelle regioni più inesplorate per cacciare castori, orsi ed altri animali dalla pelliccia pregiata. Sfidando l’ostilità di alcune tribù pellirosse, questi uomini – Jedediah Smith, il capitano Louis de Bonneville, Jim Bridger, Joe e Stephen Meek – condussero a destinazione molti convogli. Non sempre il tragitto si concludeva senza vittime: lungo i 3.200 chilometri della Oregon Trail, da Independence (Missouri) a Portland (Oregon) lasciarono infatti la vita parecchie centinaia di sfortunati pionieri, uccisi dalla fatica, da malattie e talvolta dagli Indiani ostili, mentre un numero elevato di morti avvenne per annegamento nell’attraversare corsi d’acqua dalla corrente impetuosa. Altre volte, i decessi furono provocati da morsi di serpenti velenosi, insolazioni, disidratazione o dal gelo.
E’ nota la triste vicenda della carovana guidata da George Donner, che nel 1846 rimase bloccata dalla neve sulla Sierra Nevada mentre cercava di raggiungere le fertili valli californiane: su 87 componenti, se ne salvarono soltanto 40, soccorsi da squadre di volontari dopo essere rimasti bloccati sulle rive del Truckee Lake per alcuni mesi. La necessità aveva spinto alcuni di essi a cibarsi di carne umana, smembrando i cadaveri. Del resto lo stesso Kit Carson, famosissimo ed esperto esploratore, ammise di avere fatto la medesima cosa quando, insieme al suo gruppo, si era trovato isolato e senza cibo sulle montagne innevate. Secondo quanto risulta dai documenti, i Donner finirono intrappolati sulle sierras per avere seguito una “scorciatoia” tracciata da un certo Lansford Hastings, che piantò in asso la carovana dopo che questa aveva lasciato il Wyoming.
La scorciatoia di Meek causò altrettanti guai, ma non di portata tanto drammatica. Il famoso frontiersman, nato in Virginia nel 1805 e vissuto fino all’età di 80 anni, aveva ideato un percorso alternativo che si dipartiva da quello originario a Vale, nell’Oregon, per seguire il fiume Malheur e muovere alla volta del Crooked River, proseguendo poi fino alla sua confluenza con il Deschutes, tributario del Columbia. Il sentiero terminava a The Dalles, nell’attuale Wasco County dell’Oregon nord-occidentale. Il tragitto sperimentale doveva fare i conti con l’attraversamento di un’estesa area desertica, priva di corsi e sorgenti d’acqua, completamente brulla e oppressa d’estate da un caldo torrido. Si calcola che circa 1.000 emigranti seguirono questa deviazione con 200 carri.
La vicenda narrata dalla Reichardt ripercorre l’odissea di una di queste carovane, per giunta composta da pochissimi membri. Oltre alla guida a tre uomini adulti, un bambino e la guida Meek, vi sono tre donne, una delle quali incinta, cosa abbastanza frequente a quell’epoca dato che il viaggio durava mediamente sei mesi e le famiglie erano tutte assai numerose. D’altronde, come rilevò a proposito una sociologa americana, le donne dell’Ottocento “trascorrevano la maggior parte della loro vita in gravidanza.”
Allo sparuto gruppo si aggiunge incidentalmente un Pellerossa (attore Rod Rondeaux) appartenente alla tribù dei Cayuse, che viene catturato dai pionieri e rischia l’esecuzione sommaria per l’accesa ostilità che Meek (Bruce Greenwood) nutre verso alcune tribù indiane della zona. Lo salvano lo scrupolo di coscienza degli uomini del convoglio e la fiera opposizione di Emily Tetherow (attrice Michelle Williams) che tenta addirittura di comunicare con lui nonostante l’impossibilità di comprendersi linguisticamente.
A poco a poco, mentre la carovana avanza fra praterie bruciate dal sole e distese di fango secco, fiancheggiando formazioni rocciose e seguendo il miraggio delle colline all’orizzonte, il contrasto fra i pionieri e l’arrogante Meek si fa più aspro e la fiducia della gente della carovana finisce per spostarsi verso l’incolpevole indiano. La conclusione lascia sperare che la drammatica traversata riesca a raggiungere il traguardo, ma l’”eroe” del salvataggio non è certo l’esperta guida bianca, bensì l’anonimo pellerossa.
Il film è molto curato per quanto riguarda i costumi e mostra la suprema miseria dell’emigrante, generalmente un contadino delle ormai impoverite aree coltivabili dell’Est in cerca di nuovi solchi da arare e di pascoli lussureggianti. La delusione prima e la paura poi, manifestata dalle crisi isteriche di una delle donne che chiede infantilmente di poter tornare a casa, sono arginate dalla forza manifestata dalla protagonista Emily, che oltre alla bellezza possiede nervi saldi. E’ lei a rappresentare l’unica componente erotica del film, benché la regista non abbia concepito alcuna scena di sesso. Le sue risposte allusive nei confronti di Meek – “Non conoscete le donne” – e soprattutto il suo delicato approccio verso il prigioniero indiano lasciano sottintendere la maggiore predisposizione femminile ad aprirsi verso l’ignoto senza i pregiudizi che di solito condizionano gli uomini. Non vi è dubbio che la regista abbia inteso sottolineare, con un simile comportamento, proprio tale aspetto, come è altrettanto evidente che con ciò abbia voluto stigmatizzare l’aprioristico giudizio dei Bianchi verso la razza pellerossa. Il razzismo anziché nascere dall’incapacità di comprendere i tratti di una cultura diversa, scaturisce dalla determinazione di non volerla affatto conoscere. La condanna del “diverso” deriva principalmente dal presupposto che la propria civiltà sia superiore alla sua. Ma la donna della carovana che tenta di farsi capire dallo strano individuo dalla pelle ramata è qualcosa che va oltre le differenze razziali: mettendosi a ricucire i suoi mocassini strappati, Emily gli offre la propria disponibilità quasi fosse la sua “squaw” e forse anche l’allusione sessuale, benchè appena sfiorata, ha un fondamento.
Stephen Meek esce sconfitto e umiliato da questa esperienza. Tutto il suo sapere sugli Indiani, sulla caccia e sulle terre selvagge dell’Ovest finisce per naufragare dinanzi alla determinazione di una giovane donna, che arriva a minacciarlo con il fucile carico, e di un solitario Pellerossa, che sembra possedere qualche dote sciamanica. Probabilmente anche questa è una stoccata della Reichardt al mito della colonizzazione e ai personaggi celebrati dalla leggenda. E’ pure, volendo, la rivincita dei “piedi teneri” dell’Est verso i rozzi personaggi del West, perché si dimentica troppo spesso che le carovane destinate a creare i nuovi insediamenti nell’estremo occidente – leggi: Mormoni, contadini della costa atlantica, del Sud e del Midwest – provenivano in massima parte dalle aree orientali.
“Meek’s Cutoff”, che dura 104 minuti, accompagna dialoghi essenziali a lunghissime pause silenti, nelle quali è dominante il linguaggio della natura, fatto di tramonti infuocati, fuochi accesi nella notte e panoramici rilievi sull’arida natura delle regioni attraversate. Bellissimo, ad esempio, lo scorcio iniziale in cui le donne lavano i panni sulla riva di un torrente mentre un uomo riempie un mastello d’acqua.
L’azione è talvolta di una lentezza esagerata – come ha scritto “The Observer”, “il tempo scorre con la stessa velocità dei carri che avanzano” – che tuttavia, anziché diminuire l’interesse dello spettatore, accresce la suspense. Il destino incombe sulla carovana come un’ombra fatale, senza riuscire a spegnere la speranza neppure dopo le mille difficoltà del viaggio e la perdita di un carro rotolato in fondo ad un avvallamento. E’ l’inesauribile forza del pioniere che sembra obbedire ad un disegno divino e la fatalistica rassegnazione del finale rinnova la tacita speranza che il tormento sia quasi giunto al termine.
Per certi versi, è una pellicola che ricorda “The Tracker”, di Rolf De Heer, girato nel 2002 in Australia. L’analogia fra i personaggi – la guida Meek e il fanatico razzista che conduce il gruppo sulle tracce di un Aborigeno; il Cayuse del film della Reichardt e la guida indigena Gulpilil egualmente maltrattata dai Bianchi; l’umanità di Emily e quella del soldato interpretato da Damon Gameau – è evidente. I tempi dilatati dell’azione sono una caratteristica comune ad entrambe le pellicole, così come il razzismo è componente essenziale delle due storie, sebbene quella di De Heer presenti maggiori scene di violenza. La vittoria del “diverso” – l’Indiano di “Meek’s Cutoff” e l’Aborigeno di “The Tracker” – allude metaforicamente al trionfo della natura selvaggia sull’uomo civilizzato.
Ciò sta a dimostrare quanto possano interagire gli esperimenti western sviluppati in altri Paesi con il filone più tradizionalmente nordamericano e come culture geograficamente molto distanti fra loro possiedano un’affinità di fondo. Soprattutto che il western, lungi dall’essere un genere al tramonto, ha raggiunto una maturità che lo affranca dalla sua matrice leggendaria, riscoprendo le carte del West sotto una luce meno retorica.