La battaglia di Beecher Island
A cura di Domenico Rizzi
L’idea di costituire una forza mobile per contrastare le frequenti incursioni degli Indiani delle Pianure Centrali degli Stati Uniti era venuta al generale Philip Henry Sheridan, comandante del Dipartimento Militare del Missouri.
Dopo la fine della Guerra Civile (1861-65) ad ovest del Mississippi imperversavano bande di Lakota-Sioux, Cheyenne, Kiowa, Arapaho e Comanche, assalendo carovane, diligenze, convogli ferroviari, fattorie e centri abitati.
La dura repressione attuata a Sand Creek dai Volontari del Colorado nel 1864, per iniziativa del colonnello John M. Chivington, aveva provocato una forte reazione da parte degli indiani. Una serie di razzie fu portata a segno in tutto il territorio compreso fra il fiume Platte (Nebraska) e la frontiera settentrionale del Texas, con numerose vittime civili e militari.
Anche al nord, nelle regioni del Wyoming e del Montana, l’esercito aveva subito un brutto e durissimo colpo con il massacro dell’intera colonna del capitano William J. Fetterman, caduto il 21 dicembre 1866 con tutti i suoi 80 uomini in un’imboscata dei Sioux di Nuvola Rossa.
I successi ottenuti dall’esercito erano sporadici. Nell’agosto 1867 il capitano James W. Powell di Fort Kearny nello Wyoming aveva tenuto brillantemente testa, con soli 32 soldati, a centinaia di guerrieri Lakota e Cheyenne, grazie alla dotazione dei nuovi fucili “Springfield” a retrocarica.
La battaglia a Beecher Island
Ma nelle praterie più a sud, la spedizione condotta lo stesso anno dal generale Winfield S. Hancock – 1.400 uomini, appoggiati da esploratori civili e indiani – si era conclusa in modo disastroso. In tutta la campagna, costata all’erario una cifra esorbitante, le truppe avevano ucciso soltanto un paio di Indiani, perdendo 22 soldati.
I civili massacrati in quel periodo erano stati quasi 150. Il tenente colonnello George Armstrong Custer, comandante interinale del Settimo Reggimento Cavalleria che partecipava alle operazioni, fu il capro espiatorio di quel fallimento, guadagnandosi la sospensione dal grado per un anno. Custer era stato un protagonista del conflitto secessionista ottenendo la promozione onoraria a generale di brigata a soli 23 anni e il brevetto di maggior generale al termine della guerra. Sheridan nutriva per lui una stima sconfinata, ma non poté fare molto per evitargli l’allontanamento temporaneo.
Naso Aquilino in un raro ritratto
Il tenente generale William T. Sherman, comandante della Divisione del Missouri, comprendente quattro Dipartimenti, fra cui quello diretto da Sheridan, subiva forti critiche dai politici e dalla stampa. Dal quartier generale di Chicago aveva impartito direttive severe ai propri ufficiali: “Cinquanta Indiani ostili danno scacco matto a 3.000 soldati. Occorre cacciarli via al più presto, non importa se convincendoli ad andarsene attraverso i Commissari Indiani o uccidendoli.”
Nell’ottobre del 1867 il governo tentò una soluzione pacifica con i Cheyenne, gli Arapaho, i Kiowa e i Comanche, stipulando al fiume Medicine Lodge un trattato che garantiva loro vasti territori di caccia. Ma molte bande rifiutarono di partecipare al convegno e comunque lo sterminio dei bisonti proseguì, come pure le razzie dei Pellerossa a danno dei Bianchi.
L’eccidio del plotone del giovane tenente Lyman S. Kidder – 10 soldati e una guida indiana orrendamente mutilati – suscitò orrore in tutta la nazione. La gente della “Frontiera”, i territori ad ovest del Mississippi, invocò provvedimenti esemplari.
Il Congresso degli Stati Uniti, invece, non approvò l’arruolamento di nuovi contingenti. Gli Indiani ostili delle Pianure Centrali non erano più di 5.000, raggruppati in formazioni che raramente superavano i 500 combattenti e i massacri venivano spesso commessi da piccole bande, di 50 o 100 guerrieri. A Washington non si concepiva una guerra contro gli Indiani, ma soltanto un’azione di “polizia”: occorreva confinare i ribelli nelle riserve e controllare che non le abbandonassero per portare a termine operazioni criminose. In assenza di interventi risolutivi efficaci, l’esercito americano doveva affidarsi alle risorse di cui disponeva al momento. “Sheridan non possedeva i reparti necessari per poter operare” scrisse Custer nelle sue memorie. “Il Congresso, comunque, aveva autorizzato l’impiego di distaccamenti di esploratori di frontiera…”
E fu su una forza tratta da questa categoria di persone che il generale Sheridan fece assegnamento per avere un aiuto sostanziale.
Un famoso dipinto che ritrae Naso Romano
Il gruppo, considerato di pronto impiego, venne costituito con 30 uomini a Fort Harker, nel Kansas, e integrato con altri 21 a Fort Hays, nell’estate del 1868. Comandante designato il maggiore George A. Forsyth, soprannominato “Sandy”, generale onorario e ispettore militare del Dipartimento del Missouri. L’ufficiale aveva 31 anni, una carriera brillante alle spalle e altissime qualità di comando. Trascinatore di uomini, era stato collega di Custer durante la campagna di Shenandoah contro i Sudisti. Proprio il suo antico compagno d’armi non esitava a definirlo “inarrestabile”, sostenendo che “fra tutti gli ufficiali dell’esercito, non si sarebbe potuto trovare un altro più adatto a quell’incarico”.
Vice comandante della “task-force” era il tenente Frederick H. Beecher, nipote della famosa Harriet Beecher Stowe, autrice del libro anti-schiavista “La capanna dello Zio Tom”.
Al reparto aderì anche un chirurgo, il dottor John H. Mooers di Hays City, Kansas, che nel corso della Guerra Civile aveva prestato la sua opera fra le truppe nordiste dello Stato di New York, meritandosi grande apprezzamento.
Il “commando” riuniva personaggi fra i più diversi.
Ne facevano parte “scout” navigati, cacciatori di bisonti, giocatori dei famigerati “saloon” del Kansas e avventurieri di ogni genere. Molti di essi possedevano grande esperienza, coraggio e conoscenza dei luoghi. Fra questi, Sharpe Grover, Jack Stilwell, Jack Donovan, A.J. Piley, Henry Trudeau e W.H.H. Mc Call, insignito del grado onorario di generale di brigata per meriti di guerra.
Ancora una foto che ritrarrebbe Naso Romano
Il 29 agosto 1868 gli uomini di Forsyth lasciarono Fort Hays dietro ordine di Sheridan, esplorarono un’estesa superficie del Kansas occidentale e presero la direzione di Fort Wallace, dove giunsero il 6 settembre.
Il mese di agosto, secondo le segnalazioni dei rapporti militari, era stato terribile per coloni ed emigranti delle praterie.
Il giorno 12 gli Indiani avevano ucciso 17 persone lungo i fiumi Solomon e Republican; il 23 ne avevano torturate e messe a morte altre 13 e dal 27 al 29 la lista si era allungata di 5 vittime ancora.
Dal 1° al 6 settembre, mentre gli “scout” di Forsyth avanzavano nelle pianure, spostandosi verso Fort Wallace, il massacro assumeva proporzioni preoccupanti: fra la linea dei forti del Kansas – Fort Riley, Hays, Harker, Wallace – e la parte settentrionale del Texas, i Pellerossa trucidavano 38 bianchi.
Un momento della battaglia
I capi di guerra di queste implacabili bande di razziatori erano sufficientemente noti anche ai vertici dell’esercito. Fra i Sioux che operavano nella regione – soprattutto bande di Oglala, Brulé e Minneconjou, del ceppo Lakota – spiccava l’irriducibile Uccisore-di-Pawnee, probabile “leader” dell’attacco alla colonna Kidder. I Cheyenne possedevano diversi condottieri di grande carisma: Pentola Nera, scampato alla repressione di Sand Creek, dov’erano periti 137 suoi contribali, Toro Alto, Orso Maschio, Vitello di Pietra e Naso Aquilino. Gli Arapaho vantavano uomini come Piccolo Corvo, Lupo Macchiato e Turbine; i Kiowa, Satanta, Lupo Solitario e Satank; i Comanche, capi prestigiosi come Dieci Orsi e Tosawi, oltre al giovane Quanah Parker, figlio di Peta Nokoni e della donna bianca rapita: Cynthia Ann Parker. Il raggio d’azione di tutte queste bande era estesissimo. I loro “war parties” (gruppi di guerra) spaziavano dal Kansas al Texas e al New Mexico, facendo lunghe sortite nelle regioni messicane di confine, da dove ritornavano ricchi di bottino, di ragazze prese come schiave e di fanciulli da allevare in seno alle tribù.
Due revolver ritrovati a Beecher Island
Particolare notorietà aveva, presso i Cheyenne, “Woquini”, detto Naso Aquilino, un giovane di circa trent’anni alto un metro e ottantasette centimetri, principale responsabile del massacro della scorta del sergente maggiore Amos Custard e del plotone del tenente Caspar Collins, compiuti nel 1865 vicino a Fort Platte Bridge nel Wyoming. La sua gente lo considerava invulnerabile per effetto di una potente protezione avuta in seguito ad una visione. Il guerriero indossava un copricapo di penne speciale, confezionatogli da uno sciamano e si esponeva deliberatamente al fuoco nemico, convinto che nessuna pallottola o freccia potesse nuocergli. Doveva però rispettare rigorosamente alcuni tabù per garantirsi l’immunità: gli era vietato entrare in una tenda in cui fosse nato un bambino da meno di quattro giorni e soprattutto non poteva ingerire cibo toccato da utensili di metallo.
Gli uomini di Forsyth non credevano a queste dicerie e affidavano la propria difesa a mezzi più sicuri. Erano armati con fucili “Spencer” a 7 colpi, carabine “Sharps”, revolver tipo “Colt” a 6 colpi e coltelli. Quantunque esistessero già le mitragliatrici “Gatling” a sei canne rotanti, capaci di sparare 100 colpi al minuto, pochi reparti ne erano forniti. Un’arma di questo genere, solitamente montata su due ruote come i cannoni, avrebbe costituito per il gruppo un notevole ingombro, ritardandone la velocità negli spostamenti.
Il momento di entrare in azione venne pochi giorni dopo l’arrivo a Fort Wallace. Il 10 settembre gli Indiani avevano assalito un convoglio ferroviario, uccidendo 2 persone e spingendo Forsyth a mettersi sulle loro tracce. Avanzando verso il fiume Republican, il giorno 16 gli esploratori trovarono alcuni significativi indizi del passaggio dei Pellirosse e sostarono di fronte ad un isolotto che sorgeva in mezzo al torrente Arikaree, affluente del Republican, nel territorio del Colorado orientale.
Il corso d’acqua aveva una larghezza massima di 25 metri, ma era quasi in secca. La sua profondità misurava mediamente 10 centimetri. L’isola che aveva richiamato l’attenzione di Forsyth era sabbiosa, in parte coperta di sterpaglie e cespugli, con alcuni ontani e un “cottonwood”, l’albero del cotone. Il mezzosangue George Bent, che viveva con i Cheyenne, racconterà molti anni dopo: “Gli argini del letto del fiume erano tutti ben coperti di erba alta e macchie di salici; da un lato del torrente il terreno saliva dolcemente verso la linea delle collinette che si trovavano a circa tre miglia di distanza, mentre dall’altro lato si trasformava in prateria.”
La strenua difesa dei bianchi
Il bivacco iniziò alle cinque del pomeriggio. I 51 volontari non immaginavano minimamente quale forza d’attacco avessero concentrato gli Indiani nelle vicinanze. Oltre le colline, a poca distanza da quel luogo – che gli esploratori avevano erroneamente creduto il bacino del fiume Delaware – il drappello del tenente Kidder era stato sterminato alcuni mesi prima.
All’alba del 17 settembre, il maggiore Forsyth dovette probabilmente rimpiangere di non disporre di una “Gatling”. Le sentinelle fecero appena in tempo a dare l’allarme che centinaia di guerrieri arrivarono al galoppo verso il fiume e la loro avanguardia tentò di impossessarsi dei cavalli del reparto. La reazione immediata degli esploratori riuscì a mettere in fuga i razziatori con il magro bottino di tre cavalcature e quattro muli da soma, ma il grosso delle forze nemiche incalzò la truppa, minacciando di spazzarla via in pochi istanti.
Forsyth intuì subito che l’unica possibilità di scampo era sull’isola. Ordinatamente e senza panico, com’era da aspettarsi da combattenti esperti, 10 volontari condussero gli animali al centro del torrente, legandoli ad alcuni arbusti, protetti da un attento fuoco di copertura dei loro commilitoni, e infine ripiegarono a loro volta verso il banco di sabbia.
Qui, tutti gli uomini si disposero in cerchio e aprirono un fuoco di sbarramento micidiale, abbattendo decine di assalitori in pochissimi minuti. I guerrieri più audaci riuscirono ad arrivare fino all’isolotto, ma trovarono la morte immediatamente.
Comprendendo che la sorpresa era fallita, gli Indiani circondarono la postazione da ambo i lati del corso d’acqua e iniziarono a bersagliarla a distanza, con fucili e frecce. Il Cheyenne Ventre-di-Lupo, un altro guerriero considerato invulnerabile, guidò quindi un assalto a piedi, armato solo di lancia e scudo. Ritornò indietro incolume, ma si lasciò alle spalle un’altra decina di caduti. Il maggiore Forsyth credette che quel condottiero fosse il famoso Naso Aquilino e forse per un attimo pensò che la leggenda della sua invulnerabilità avesse qualche fondamento. Ma mentre inseguiva queste riflessioni, fu colpito alla coscia destra da un proiettile e subito dopo un altro colpo lo ferì alla gamba sinistra, costringendolo all’immobilità.
Appena il combattimento ebbe una pausa, l’ufficiale fece il punto della situazione. Aveva perduto 2 uomini, il dottor Mooers e il tenente Beecher erano moribondi, i feriti ammontavano ad una decina. In compenso, disponeva di 36 uomini validi e scorte di munizioni ancora abbondanti, nonostante fossero già stati esplosi più di mille colpi.
Oltre la riva e nel letto del fiume si potevano contare 30 cadaveri nemici ed un numero maggiore di cavalli abbattuti. Forsyth fece una stima della consistenza dell’avversario e concluse che i suoi combattenti dovevano essere almeno 450. Cifre più esatte sarebbero state fornite in seguito: gli Indiani erano oltre 600, soprattutto Cheyenne guidati da Toro Alto e Cavallo Bianco, appoggiati da Arapaho e Sioux di Uccisore-di-Pawnee. I loro villaggi si trovavano a una dozzina di miglia dal luogo dello scontro ma molte “squaw”, seguite da anziani e fanciulli, erano venute ad assistere alla battaglia, fermandosi su un’altura. Naso Aquilino non aveva partecipato all’attacco ed era riluttante all’idea di esporsi.
Il Maggiore Forsyth
La sua “protezione” era stata temporaneamente compromessa dalla leggerezza delle donne Sioux: mentre era ospite di questa tribù, gli avevano servito cibo toccato con attrezzi di metallo. Il guerriero confidò i suoi timori a Toro Alto, che li condivise, ma qualcun altro incitò invece il campione dei Cheyenne a buttarsi nella mischia. Piuttosto che rischiare l’impopolarità, Naso Aquilino indossò il suo pregiato casco di penne e montò a cavallo, dirigendosi verso il fiume.
Era ormai il pomeriggio del 17 settembre, il primo di otto lunghi giorni di assedio. Il “leader” Cheyenne caricò alla testa dei suoi uomini e fu centrato in pieno da una pallottola. Cadde da cavallo, si trascinò verso la riva e fu portato via da alcuni contribali. Morì, insieme al suo mito, quella notte stessa, poche ore dopo la fine del tenente Beecher, mortalmente ferito in due parti del corpo. Il dottor Mooers spirò invece due giorni dopo.
Al calar della notte Forsyth, colpito una terza volta in modo leggero, incaricò Henry Trudeau e Jack Stilwell di raggiungere Fort Wallace per chiedere soccorsi, a 110 miglia di distanza. I due accettarono senza obiezioni e partirono a mezzanotte in punto, strisciando sul letto del torrente e allontanandosi da quel luogo. Incapparono più volte in gruppetti di Indiani, ma riuscirono sempre ad eluderne la sorveglianza. Intanto gli uomini di Forsyth scavarono trincee nella sabbia, le protessero con le selle e le carcasse dei cavalli morti e attesero il secondo giorno.
Il 18 settembre apparve meno duro della prima giornata. Le improvvisate barriere erette dai volontari e le forti perdite subite in precedenza dagli Indiani consigliarono a questi maggiore prudenza. Il terzo giorno le “squaw” che assistevano alla battaglia si allontanarono, ma l’illusione che i Pellirosse si ritirassero svanì ben presto. Invece degli assalti allo scoperto, i Cheyenne preferirono l’assedio, con sporadiche incursioni. Forsyth scrisse un messaggio al colonnello Bankhead di Fort Wallace: “Ho 8 uomini gravemente feriti ed altri 10 con ferite leggere… Tutti gli animali che avevo sono stati abbattuti… Io e i miei uomini siamo su un isolotto e abbiamo ancora abbondanti munizioni di scorta. Mangiamo soltanto carne di mulo e di cavallo”. Affidò lo scritto a Donovan e Piley che partirono subito.
L’assedio si protrasse, interminabile e snervante, per altri cinque giorni. Il 22 settembre lo “scout” Chauncey B. Whitney annotò nel suo diario: “Ucciso un coyote stamattina. Era buonissimo. La carne di cavallo è quasi finita. Abbiamo trovato dei fichi d’India assai gustosi”. La sera del 24 aggiunse: “Abbiamo preparato una zuppa di carne di cavallo marcia. Mio Dio, perché ci hai abbandonati?”
All’alba del 25 settembre apparve all’orizzonte un contingente militare. Era finalmente uno squadrone di soldati di colore del Decimo Cavalleria di Fort Wallace, al comando del capitano Louis H. Carpenter. La salvezza per gli uomini di Forsyth.
Durante gli otto giorni di combattimenti erano caduti il tenente Frederick Beecher, il dottor Mooers e 6 uomini. Tutti gli altri riportarono ferite più o meno gravi e 8 di essi rimasero invalidi. Per gli Indiani il bilancio risultò molto peggiore. Oltre ai 32 corpi senza vita sparsi intorno all’isola – chiamata da quel giorno “Isola di Beecher” in memoria del coraggioso ufficiale – ne vennero rinvenuti 24 in due fosse comuni a qualche distanza dal luogo. Altri 20 guerrieri morirono in seguito per le ferite. Gli indiani contestarono vanamente queste cifre, sostenendo di avere perso soltanto 6 guerrieri Cheyenne, un Sioux e un Arapaho.
Il maggiore George Forsyth partecipò alle campagne contro i pellerossa – Apache, Cheyenne, Sioux – fino al 1890, ottenendo la promozione a colonnello dell’esercito regolare. Morì nel 1915 all’età di 78 anni. La sua impresa, ai limiti delle possibilità umane, divenne l’emblema della tenacia dei colonizzatori alle prese con terre inospitali e “selvaggi ostili”. Nello stesso tempo, costituì un terribile smacco per Cheyenne, Arapaho e Sioux, che persero la prerogativa di dominatori incontrastati delle praterie.
Una fotografia di Beecher Island scattata nel 1917
Due mesi dopo la battaglia di Beecher’s Island, il Settimo Cavalleria di Custer rase al suolo il villaggio Cheyenne di Pentola Nera, uccidendo il capo e 102 persone al fiume Washita. Nel luglio 1869 il maggiore Bugene M. Carr sbaragliò le forze di Toro Alto a Summit Springs, mentre cercavano scampo a nord del fiume Platte. Anche questo condottiero perse la vita insieme a 51 Cheyenne e 117 fuggitivi furono catturati.
Nel 1870 quasi tutti i capi di maggior fama dei Cheyenne meridionali erano stati uccisi e la tribù si avviava tristemente alle riserve dell’Oklahoma.
Una lettera a Fort Wallace
La lettera che segue è la traduzione (la prima in Italia) di quella inviata a Fort Wallace, nella notte del 19 Settembre, per mezzo degli Scouts Donovan and Piley per richiedere urgentemente degli aiuti ai soldati in grave difficoltà.
Delaware Creek, Republican River – 19 Settembre 1868
Per il Colonnello Bankhead o l’ufficiale comandante – Fort Wallace
Vi ho mandato due staffette durante la notte del 17, informandovi della situazione critica in cui mi trovo. Ho tentato di mandare altri due messaggeri l’altra notte, ma non sono riusciti a superare le sentinelle indiane e sono tornati indietro. Se le prime due non vi hanno ancora raggiunto, affrettatevi immediatamente in aiuto. Ho otto uomini gravemente feriti a cui badare e ogni animale che avevamo è stato ucciso, salvo sette, che gli indiani hanno fatto fuggire. Il tenente Beecher è morto, il medico, il Dottor Moores probabilmente non supererà la notte. È stato colpito alla testa giovedì e da allora non ha più detto una sola parola razionale. Io stesso sono stato colpito in due punti della coscia destra e la mia gamba sinistra è spezzata al di sotto del ginocchio. Il numero dei soli Cheyenne è intorno ai 450, o forse di più. Mr. Grover dice che non hanno mai combattuto così. Sono armati magnificamente con fucili Spencer e Henry. Ne abbiamo ucciso almeno 35 e feriti molti più, oltre ad aver ucciso e ferito un grande numero di cavalli. Hanno portato via la maggior parte dei loro caduti e dei loro feriti durante la notte ma tre dei loro uomini sono rimasti nelle nostre mani.
Sono su un isolotto e abbiamo ancora munizioni in abbondanza. Ci cibiamo della carne dei muli e dei cavalli e siamo completamente sprovvisti di razioni. Se non ci fossero così tanti feriti entrerei in azione e tenterei di cacciarli con una sortita essendo (gli indiani) chiaramente stanchi della situazione.
Due dei miei uomini sono stati uccisi il giorno 17, i loro nomi sono, William Wilson e George W. Chalmers (Culver).
Dovreste intervenire con non meno di 75 uomini e portate tutti i carri e le ambulanze di cui potete disporre. Portate un obice da sei libbre. Posso resistere ancora per più di sei giorni, se assolutamente necessario, ma per favore, non perdete tempo.
Molto rispettosamente, il Vostro obbediente servitore,
George A. Forsyth, US Army, Commanding Co. Scouts
P.S. – Essendo il mio chirurgo ferito a morte, nessuno dei miei feriti ha ricevuto cure. quindi, per favore, portate con voi un chirurgo.
Gli scouts Donavan and Piley, a cui fu affidata questa lettera, arrivarono a Fort Wallace il 22 settembre un’ora prima degli scouts Trudeau and Stillwell, partiti da Beecher Island due notti prima degli altri, ossia il 17 settembre.