La Guerra Indiana del Nord Ovest
A cura di Pietro Costantini
ANTEFATTI – LA POTENZA IROCHESE
Occorre premettere che qui il Nord Ovest non è la regione classica etno-geografica che si intende di solito parlando di Nativi americani, e cioè quella compresa fra le Montagne Rocciose e il nord Pacifico. Questo è il Nord Ovest della giovane America uscita dalla Rivoluzione. Per le 13 ex colonie, infatti, era la regione compresa tra i fiumi Ohio e Mississippi, più o meno comprendente gli attuali stati di Ohio, Indiana, Illinois, Michigan e Wisconsin, cui i coloni bianchi guardavano avidamente per impadronirsi di terre che apparivano fertili e facilmente coltivabili.
Per le terre poste ad est del fiume Mississippi e a sud dei Grandi Laghi si combatté per secoli, prima che fosse costituito il governo degli Stati Uniti.
Nel 1608 l’esploratore francese Samuel Champlain stipulò un’alleanza con il popolo degli Uroni che viveva presso le rive del fiume San Lorenzo, per combattere la Confederazione Haudenosaunee (le “Cinque Nazioni” Irochesi), stanziata in quella che oggi è la parte settentrionale e occidentale dello stato di New York. Il risultato fu una perdurante inimicizia tra la Confederazione Haudenosaunee e i Francesi, che portò ad accordi degli Irochesi con i commercianti di pellicce olandesi, che occupavano le rive del fiume Hudson dal 1626 circa. Gli Olandesi offrivano prezzi migliori dei Francesi e fornivano agli Irochesi armi da fuoco, asce e coltelli in cambio di pellicce. Con queste armi più sofisticate, le Cinque Nazioni sterminarono gli Uroni e tutte altre tribù native che vivevano ai confini immediatamente ad ovest del loro territorio, e cioè in Ohio, nel corso delle Guerre del Castoro, a partire dal decennio iniziato nel 1640.
Le tribù indiane combattevano per i territori di caccia al fine di assicurarsi il commercio delle pellicce con gli Europei. Le tribù occidentali erano anche state indebolite da epidemie indotte da malattie infettive portate dagli Europei, contro le quali non avevano acquisito alcuna immunità. L’uso di armi moderne da parte delle Cinque Nazioni provocò una maggiore mortalità nelle guerre indiane. Gli storici considerano le Guerre del Castoro uno dei conflitti più sanguinosi della storia del Nord America.
Intorno al 1664 le Cinque Nazioni divennero partners commerciali degli Inglesi, che avevano sottratto la Nuova Olanda (rinominata Nuova York) agli Olandesi.
Così le Cinque Nazioni avevano ingrandito il loro territorio. Con il loro numero, le tribù che pagavano tributi agli Irochesi ridefinivano la mappa tribale del Nord Est americano. Molte grandi confederazioni erano state distrutte o si erano ricollocate altrove, tra le quali gli Uroni, i Neutral, gli Erie, i Susquehannock e gli Shawnee. Le Cinque Nazioni scacciarono diverse altre tribù orientali anche al di là del Mississippi. Il paese dell’Ohio si era virtualmente svuotato, poiché le tribù sconfitte erano fuggite ad ovest per trovare scampo dai guerrieri Irochesi.
Il Territorio del Nord-Ovest in rapporto con gli Stati attuali
Dopo che le Cinque Nazioni furono sconfitte dai Francesi, lasciarono la maggior parte del territorio del Nord Ovest, del Kentucky e dell’Ohio quasi del tutto spopolati, con molti villaggi abbandonati. Esse avevano proclamato che l’intera valle dell’Ohio era loro esclusivo territorio di caccia. Dopo il 1700, alcuni membri delle tribù native cominciarono a ritornare nel Territorio del Nord Ovest. Erano spesso delle aggregazioni di tribù differenti, che pagavano tributo alle Cinque Nazioni.
Nel corso dei secoli XVII e XVIII, sia la Gran Bretagna che la Francia proclamarono il possesso del paese dell’Ohio, in competizione con le Cinque Nazioni (che divennero Sei Nazioni dopo l’ammissione dei Tuscarora nel 1722), e per la metà del 18° secolo avevano mandato mercanti e commercianti in pellicce in tutta l’area, allo scopo di commerciare con i Nativi del luogo, gli abitanti attuali del territorio.
LA GUERRA FRANCO – INDIANA
La violenza esplose improvvisamente. Durante la Guerra Franco Indiana, un prolungamento in Nord America di quella che fu la Guerra dei Sette Anni in Europa. Le tribù si erano alleate parte con i Francesi (la maggior parte) e parte con gli Inglesi, spesso in conseguenza delle esigenze commerciali, e guerreggiavano tra di loro e contro i coloni. La guerra finì con la sconfitta della Francia, che rinunciò ad ogni pretesa territoriale verso la Gran Bretagna con il Trattato di Parigi del 1763.
In rosa gli Stati nati dalla Rivoluzione. In verde le regioni su cui gli Inglesi riconobbero agli USA il diritto di espansione col Trattato di Parigi del 1783
Gli Inglesi fronteggiavano ancora l’ostilità di numerose tribù native nella zona dei Grandi Laghi: Ottawa, Ojibwa, Pottawatomi e Uroni; nell’Illinois orientale: Miami, Wea, Kickapoo, Mauscoten e Piankashaw; nell’Ohio: Delaware (Lenape), Shawnee, Mingo e Wyandot (Uroni). Le tribù erano esacerbate dall’arroganza degli ufficiali coloniali Inglesi che le trattavano come soggetti sconfitti ed erano preoccupate dalla crescente minaccia dei coloni inglesi che si spostavano per installarsi nei loro territori. Esse mossero guerra nel corso della Ribellione di Pontiac (1763-66), quando gli Indiani incendiarono parecchi forti inglesi che sorgevano sulle loro terre. Uccisero e scacciarono molti coloni dalla valle dell’Ohio e dal territorio dei Grandi Laghi. In risposta, la Gran Bretagna mandò truppe per rinforzare Fort Pitt, e alla fine ebbe la meglio nonostante la sconfitta subita con l’imboscata di Bushy Run. La guerra si esaurì senza un vero vincitore. I Nativi rimanevano imbattuti anche se non erano riusciti a scacciare le forze coloniali inglesi dal loro territorio.
L’Inghilterra chiuse ufficialmente i Territori del Nord Ovest agli insediamenti coloniali con la Proclamazione del 1763, nel tentativo di avere pace con le tribù ad ovest dei monti Appalachi. Il 22 giugno 1764 il parlamento inglese deliberò il Quebec Act, che annetteva i Territori del Nord Ovest alla provincia del Quebec. Alcuni coloni, desiderosi di spostarsi verso “nuove terre”, considerarono questa decisione come uno degli “atti intollerabili” che contribuirono allo scoppio della Rivoluzione Americana.
Guerre Cherokee: una fase della battaglia di Fort Watauga in una ricostruzione
Una banda di Cherokee, condotta da Dragging Canoe, come pure gli Shawnee, erano già in guerra con gli Americani dal 1776, nelle guerre Cherokee, che si integrarono nella Guerra del Nord Ovest.
LA RIVOLUZIONE AMERICANA
Durante la Rivoluzione Americana, quattro delle Sei Nazioni della Lega Irochese si posero dalla parte degli Inglesi. Mohawk, Onondaga, Cayuga e Seneca combatterono contro i coloni nella battaglia di Oriskany e aiutarono gli Inglesi nella battaglia di Wyoming in Pennsylvania, nonché a Saratoga, Cherry Valley e in altre incursioni attraverso la valle Mohawk, nel territorio di New York, ed anche in numerose altre azioni alle frontiere fra New York e Pennsylvania. Poiché nel 1779 gli Inglesi erano focalizzati nella lotta contro gli Stati meridionali, il generale George Washington passò all’attacco contro le Sei Nazioni. Egli ordinò al generale John Sullivan di attaccare e distruggere i villaggi delle Sei Nazioni nella parte superiore di New York. Nell’autunno 1779, al comando di circa 5000 uomini, Sullivan sconfisse gli Irochesi nella battaglia di Newtown, quindi distrusse più di 50 dei loro villaggi e tutti i depositi con i raccolti da conservare. A causa della disgregazione sociale e delle perdite dei raccolti, in quell’inverno morirono di fame diversi uomini, donne e bambini delle Sei Nazioni. Molte famiglie irochesi si ritirarono a Fort Niagara e in altre parti del Canada, dove passarono un inverno di freddo e di fame. La loro potenza nel territorio degli odierni Stati Uniti diminuì fortemente e i loro diritti sui territori del Nord Ovest cancellati. Nel 1778 il generale americano George Rogers Clark con 178 uomini catturò i forti inglesi sui fiumi Mississippi e Wabash. Ciò diede agli Stati Uniti il controllo sul fiume Ohio e il possesso di tutte le terre a nord dell’Ohio. Nell’autunno 1779, Indiani alleati degli Inglesi attaccarono la compagnia comandata dal colonnello David Rogers e dal capitano Robert Benham vicino a Cincinnati; solo un pugno di soldati sopravvisse a quest’attacco. Nel 1780 un ufficiale francese di nome Augustin de La Balme condusse una milizia di volontari di Vincennes in un’incursione contro Kekionga, mirando a catturare Fort Detroit. Questo segnò la prima vittoria conosciuta di Piccola Tartaruga, capo Miami che aveva radunato tutti i guerrieri disponibili e aveva distrutto le truppe di La Balme.
La battaglia di Wyoming
Quando la guerra con l’Inghilterra si concluse, i giovani Stati Uniti guardarono a consolidare i propri confini, vendicarsi delle incursioni degli Indiani ed espandersi verso ovest. Nel marzo 1782, un gruppo di miliziani della Pennsylvania penetrò nell’Ohio e massacrò gli abitanti del villaggio cristiano dei Lenape di Gnadenhütten. Due mesi dopo, il colonnello William Crawford condusse 500 volontari nell’interno della valle dell’Ohio e attaccò alcu
ni villaggi dei Nativi vicino al fiume Sandusky.
L’armata di Crawford fu sconfitta con la perdita di circa 70 milizia miliziani e parecchi prigionieri vennero giustiziati in ritorsione del massacro di Gnadenhütten. Nell’agosto 1782 si combatté a Blue Licks, nel Kentucky, l’ultima battaglia della Rivoluzione Americana. Su una collina vicina al fiume Licking (attuale contea di Robertson, Kentucky), una forza di circa 50 rangers inglesi e 300 Nativi con un’imboscata mise in fuga 182 miliziani del Kentucky che erano al loro inseguimento.
Con la fine della guerra, il Trattato di Parigi del 1783 con la Gran Bretagna diede agli Stati Uniti l’indipendenza e il controllo sui Territori del Nord Ovest, almeno sulla carta. Gli alleati delle Sei Nazioni furono costretti a cedere agli Stati Uniti la maggior parte delle loro terre nello stato di New York e molte famiglie appartenenti alle Sei Nazioni dovettero spostarsi in riserve poste nella provincia del Vecchio Quebec (oggi a sud dell’Ontario).
LE TENSIONI DEL DOPOGUERRA
Il Territorio dell’Ohio era sottoposto a sovrapposizioni e conflitti a causa delle rivendicazioni da parte degli stati di Massachusetts, Connecticut, New York e Virginia, nonché di Shawnee, Mingo, Lenape e altri abitanti effettivi di quei luoghi, che non erano più considerati tributari delle Sei Nazioni. Mentre gli Inglesi avevano patito una sconfitta decisiva con la battaglia di Yorktown (1781), non vi era stata una sconfitta altrettanto netta dei loro alleati indiani nei Territori del Nord Ovest. Le tribù native del Vecchio Nord Ovest non ebbero parte nel trattato. Molti capi, specialmente Piccola Tartaruga e Giacca Blu, rifiutarono di riconoscere i diritti degli Stati Uniti nell’area a nord ovest del fiume Ohio.
Gli Inglesi restarono in possesso dei loro forti sui Grandi Laghi, attraverso i quali continuarono a supportare gli alleati Nativi con utensili e armi in cambio di pellicce. Qualcuno nel governo britannico desiderava mantenere un territorio indiano neutrale tra Canada e Stati Uniti, ma molti concordavano sul fatto che un ritiro immediato non fosse possibile senza lo scatenarsi di una nuova guerra coi Nativi.
Una fase della Battaglia di Yorktown
La persistente presenza inglese non ebbe una fine formale fino al ritiro dei Britannici dai forti sui Grandi Laghi seguente al Trattato Jay, negoziato nel 1794, e sarebbe continuata in seguito in modo informale fino alla guerra del 1812.
Tramite la pubblica vendita delle terre dell’Ovest, il Congresso Confederato dei nuovi U.S.A. sognava di stabilizzare il dollaro e ripianare molti dei suoi debiti di guerra. La “Land Ordinance” del 1785 incoraggiava gli speculatori terrieri e i coloni che speravano di ottenere nuove terre dai Nativi, che potevano vantare o meno dei diritti su di esse. Per acquisire la maggior parte della porzione orientale dell’Ohio, nel 1785 il Congresso negoziò il Trattato di Fort McIntosh con molte tribù indiane. I coloni del Connecticut erano già affluiti nella “Riserva Occidentale”, che si estendeva in parte di una riserva già destinata per alcune delle tribù. La “Northwest Ordinance” del 1787, inserita dal Congresso negli Articoli della Confederazione, diede agli Indiani il diritto, sotto la legge U.S.A., di vivere in qualunque terra stessero occupando. Incoraggiò peraltro l’afflusso di coloni americani a nord del fiume Ohio. Quindi continuarono scontri e imboscate localizzate tra questi coloni e i Nativi. Il fallimento del Trattato di Fort Harmar del 1789 per appianare le divergenze sotterranee fra le due parti non fece altro che esacerbare i problemi. Nel 1789 venne costruito Fort Washington per proteggere gli insediamenti americani nella “Symmes Purchase” (un’area dell’Ohio venduta dal Congresso al giudice John Cleves Symmes). Il nuovo forte aggiunse sicurezza per i coloni, ma inquietò le Nazioni indiane che vivevano a nord del fiume Ohio. Fort Washington divenne il primo di una linea di forti posta nella zona nord dell’Ohio e le tribù indiane tutte insieme avrebbero presto richiesto la loro demolizione come una delle condizioni di pace.
NASCITA DELLA CONFEDERAZIONE INDIANA
La cooperazione fra le tribù indiane che formavano la Confederazione Occidentale risale all’era coloniale francese e si rinnovò all’epoca della Guerra di Rivoluzione Americana. La confederazione si riunì dapprima nell’autunno 1785 a Fort Detroit, e proclamò che i suoi aderenti avrebbero agito in accordo con gli Stati Uniti, piuttosto che individualmente. Il proposito venne rinnovato nel 1786 nel villaggio Urone di Upper Sandusky. La confederazione dichiarò che il fiume Ohio era il confine fra i suoi territori e quelli dei coloni americani. Gli Wyandot (Uroni) erano i “padri” o tribù garante della confederazione, ma gli Shawnee e i Miami fornivano la gran parte delle forze combattenti. La confederazione comprendeva guerrieri di una vasta varietà di popoli: Wyandot (Uroni); Shawnee; Consiglio dei tre Fuochi (Ojibwa, Ottawa, Potawatomi); Lenape (Delaware); Miami; Kickapoo; Kaskaskia; confederazione Wabash (Wea, Piankashaw e altre); Cherokee Chickamauga.
Nella maggior parte dei casi, un’intera tribù non venne coinvolta nella guerra; le società indiane erano in genere non centralizzate. La partecipazione alla guerra veniva decisa dai villaggi, da singoli guerrieri o da singoli capi. Quasi 200 guerrieri Cherokee di due bande appartenenti ai villaggi Overhill combatterono insieme agli Shawnee fin dall’inizio della Rivoluzione. In aggiunta, il capo Cherokee Chickamauga, Dragging Canoe, mandò un contingente di guerrieri per un’azione specifica. In questi anni alcuni guerrieri delle tribù Choctaw e Chickasaw, che da sempre erano state nemiche tradizionali delle tribù del Nordovest, servirono come scouts per gli Stati Uniti.
LA GUERRA
Storicamente la Guerra del Nord Ovest inizia nel 1785. Tuttavia gli scontri tra Nativi e coloni si verificarono fin dagli inizi della Guerra di Rivoluzione Americana, con le tribù indiane alleate degli Inglesi contro i “ribelli”, e possono essere considerati i prodromi di questo conflitto. Tale, per esempio, è la battaglia di Blue Licks – Bryan Station, cui si è accennato in precedenza.
Sempre attivi contro gli Stati Uniti, alcuni agenti britannici nella regione vendevano armi e munizioni agli Indiani e incoraggiavano gli attacchi contro i coloni americani. Gruppi di guerra lanciarono una serie di incursioni isolate a metà degli anni ’80 del ‘700, che ebbero come risultato spargimento di sangue e scoramento.
Il raid di Logan
Nell’autunno del 1786, per ordine di George Rogers Clark, il generale Benjamin Logan condusse un’armata di soldati federali e di miliziani a cavallo del Kentucky contro diversi villaggi Shawnee dell’Ohio lungo il Mad River, abitati soprattutto da non combattenti, in quanto la maggior parte dei guerrieri era stata lasciata a difendere i villaggi del capo Piccola Tartaruga dall’attacco di un altro esercito che stava risalendo il fiume Wabash sotto il comando del generale George Rogers Clark. Logan razziò e incendiò trenta villaggi, per lo più pieni di donne e bambini, distruggendo le riserve di cibo e uccidendo o catturando molte persone, tra cui il vecchio capo Moluntha, che venne presto ucciso da uno degli uomini di Logan, il quale presumibilmente riteneva che il capo avesse preso parte alla battaglia di Blue Licks.
Ancora oggi il nome di una squadra di football americano ricorda Benjamin Logan
Moluntha all’inizio dell’anno aveva firmato il Trattato di Fort Finney e aveva issato una bandiera americana sopra la sua loggia. Quando la truppa di Logan attaccò, egli si era tranquillamente arreso con la sua famiglia, mostrando una copia del trattato a dimostrazione dei suoi pacifici rapporti di relazione con gli Stati Uniti. Il colonnello della milizia Hugh McGary aveva partecipato alla battaglia di Blue Licks, nell’agosto 1782, e quanto la debole resistenza offerta dagli abitanti dei villaggi Shawnee ebbe termine, aveva avvicinato l’anziano capo chiedendogli se fosse stato presente a quella battaglia. Moluntha non c’era stato, ma egli fraintese la domanda e sembrò rispondere evasivamente. McGary, una testa calda la cui irresponsabilità era stata la causa di quella sconfitta, colpì rabbiosamente il vecchio capo con un’accetta, lo uccise con un secondo colpo e lo scalpò. L’incursione di Logan e la morte del loro capo irritarono gli Shawnee, che si vendicarono incrementando ulteriormente gli attacchi contro i bianchi, innalzando il livello della guerra. Le incursioni indiane su entrambe le rive dell’Ohio ebbero per risultato un incremento del numero delle vittime. Dalla metà alla fine degli anni ’80 i coloni americani a sud del fiume Ohio nel Kentucky e i viaggiatori a nord e lungo il corso del fiume ebbero all’incirca 1500 morti. I coloni si vendicavano con attacchi contro gli Indiani.
Più tardi, nel 1787, era stato firmato il Trattato di Fort Harmar tra gli Stati Uniti e quella che era ricordata come “…un insieme non rappresentativo di capi indistinguibili…” Il trattato riduceva le terre dei Wyandot, ma nell’Ohio il controllo dei territori loro e di altre tribù era ancora in discussione. Nello stesso tempo, il governo degli Stati Uniti vendeva vasti appezzamenti di terreno nell’Ohio per raccogliere denaro dopo le enormi spese di guerra e soddisfare gli appetiti di numerosi coloni, interessati alle terre al di là dei monti Appalachi. Le tensioni si accrebbero con l’entrata dei coloni in quell’area.
Per lo sviluppo e le speculazioni di quei territori venne fondata la “Ohio Company of Associates”, formata da un numeroso gruppo di veterani della Rivoluzione Americana del New England. Nel 1787 essi acquisirono approssimativamente 1.500.000 acri (circa 6.100 km²) nel Territorio del Nord Ovest dagli Stati Uniti, ma i loro acquisti non vennero ratificati fino al 1792. I primi coloni di queste terre seguivano le linee guida nazionali per l’insediamento nell’Ovest ed erano molto rispettosi del governo, probabilmente per il ruolo avuto nella Rivoluzione. I fondatori della Ohio Company promuovevano un’espansione verso ovest ordinata e nazionalistica. Cominciarono a preoccuparsi quando sorsero problemi a causa delle maggiori acquisizioni individuali di quelle terre, e affermavano i loro propri scopi spostando questi coloni in territori dove la Compagnia non aveva titolo. Scontri armati con le tribù indiane tormentavano l’insediamento della Compagnia di Marietta.
Una crisi finanziaria a New York stava nuocendo agli investitori così come ai fondi della Compagnia. La Compagnia cercava di integrare gli interessi di coloni e investitori dell’Est con quelli dell’Ovest, ma la sua struttura favoriva la parte orientale del territorio, mentre i coloni dell’ovest non erano ben rappresentati. Essi volevano protezione dagli Indiani, ma la Ohio Company non fece nulla per mancanza di fondi: aveva comprato un vasto territorio dagli Stati Uniti e ora lo stava rivendendo. Gli Indiani continuavano le loro incursioni contro quelli che consideravano degli intrusi, cioè i coloni.
La campagna di Harmar e Piccola Tartaruga
Nonostante tutti questi morti e questa violenza, le guerra non era totale. Prima della Guerra di Rivoluzione Americana, gli Inglesi avevano cercato di preservare quest’area come riserva per i Nativi, ma furono costretti a cedere quello che divenne noto come Territorio del Nord Ovest quando gli stati Uniti ottennero l’indipendenza. I coloni americani erano impazienti di entrare in queste terre e così fecero.
Nel 1789 il presidente George Washington scrisse ad Arthur St. Clair, governatore del Territorio del Nord Ovest (entità non riconosciuta dai suoi abitanti Nativi), chiedendogli di verificare se gli Indiani che vivevano lungo il corso dei fiumi Wabash e Illinois fossero “inclini verso la guerra o la pace” con gli Stati Uniti.
Indiani Shawnee
St. Clair asserì che le tribù volevano la guerra e convocò le milizie in adunata a Fort Washington (l’attuale Cicinnati, Ohio) e a Vincennes, nell’Indiana. Il presidente Washington e il segretario della guerra Henry Konx ordinarono al generale Josiah Harmar di condurre queste truppe in una spedizione punitiva nelle terre degli Shawnee e dei Miami, come ritorsione delle uccisioni di coloni e viaggiatori americani lungo la frontiera contestata, per far desistere le tribù da ulteriori attacchi.
L’obiettivo primario della campagna era la distruzione del grande villaggio principale dei Miami di Kekionga (oggi Fort Wayne, Indiana), dove i fiumi St. Joseph e St. Mary si congiungono per formare il Maumee. St. Clair e Harmar avevano anche deciso di costruire là un forte. Ma quando, nell’agosto 1790, St, Clair presentò il piano a Washington, il presidente decise che un forte sarebbe stato troppo oneroso e vulnerabile. A quell’epoca le forze britanniche occupavano ancora Fort Detroit, in violazione del Trattato di Parigi del 1783. St. Clair scrisse agli Inglesi di Fort Detroit per rassicurarli sul fatto che la spedizione era diretta solo contro le tribù indiane, ed espresse la sua fiducia che gli Inglesi non avrebbero interferito.
Dei popoli che abitavano il Territorio del Nord Ovest, i Miami erano la nazione centrale. Il loro nome in lingua Chippewa era “Popolo che vive nella penisola”, perché vivevano a sud dei Grandi Laghi, nella zona sottostante il paese dei Chippewa e degli Ottawa. Chiamavano sé stessi “Twanh-twanh”, dal verso della gru. Dagli Ojibwa (Chippewa) erano chiamati Omaumeg, che in inglese divenne “Miami”. A quell’epoca abitavano la valle del fiume Wabash, nel nord dell’Indiana, vicino all’odierna città di Fort Wayne. Essi reputavano questo territorio come loro patria, come pure la parte occidentale dell’Ohio, dove avevano vissuto originariamente. Gli Shawnee e i Wyandot vi erano penetrati in seguito, dicevano i Miami, per cui erano solo inquilini in quelle terre.
Piccola Tartaruga, o Mich-i-kin-i-kwa, nato da un capo Miami e da una donna Mohegan, era diventato il loro capo. Alla fine della Rivoluzione americana aveva all’incirca trent’anni. Secondo la legge indiana matrilineare era classificato come guerriero Mohegan. Aveva militato con gli Inglesi sotto il generale Burgoyne fino alla resa di Saratoga. Le sue gesta e la sua esperienza sul campo, nel villaggio e nel consiglio ne avevano fatto un veterano e gli avevano fatto guadagnare il comando dei 1200 Miami.
L’espansionismo degli Stati Uniti verso l’Ohio fece sì che si stipulasse un trattato con i Cherokee e i Chickasaw del sud e con le Sei Nazioni del nord e probabilmente con le stesse Nazioni dell’Ohio. Tutte queste tribù affermarono che non avrebbero parlato di pace finché non avessero parlato con i loro “padri” inglesi a Detroit. In effetti non erano convinte che il re si fosse davvero arreso e avesse ceduto le terre dell’Ohio. Asserivano anche che i trattati, con i quali le terre erano state vendute, non erano stati firmati dai capi effettivi. In sette anni, a partire dalla fine del 1782, sull’Ohio erano stati uccisi o catturati circa duemila coloni e mercanti americani e ventimila cavalli erano stati rubati. I villaggi Miami sul confine fra Ohio e Indiana fornivano le basi di partenza per le molte spedizioni di guerra.
Il generale Josiah Harmar, comandante in capo dell’esercito degli Stati Uniti, partì il 3 ottobre 1790 da Fort Washington, a Cincinnati, con 320 regolari del Primo Fanteria e 1133 uomini della milizia del Kentucky e della Pennsylvania, oltre a tre mortai montati su carri trainati da cavalli.
Un’immagine di Piccola Tartaruga
Della compagnia facevano parte pochi uomini con esperienza di frontiera, mentre molti altri avevano pagato uomini immigrati di recente perché prendessero il loro posto. Il tenente Ebenezer Denny scriveva che la milizia “sembra essere inesperta e poco adatta alle armi e ai boschi.” Le truppe furono radunate nel mese di settembre e la campagna doveva essere completata prima del sopraggiungere dell’inverno. I cavalli adibiti al trasporto dei rifornimenti erano nutriti al pascolo e avrebbero patito la fame nell’inverno della frontiera. L’esercito non aveva tempo per addestrare la milizia. La campagna venne lanciata da Washington il 7 ottobre 1790. Il generale Harmar cominciò la marcia da nord, lungo il fiume Great Miami.
Ovviamente Piccola Tartaruga ne fu subito informato, infatti le sue spie infestavano la regione. Radunò allora le sue bande e le tribù; queste erano le stesse che avevano aderito a suo tempo alla rivolta di Pontiac: Ottawa, Potawatomi, Chippewa, Shawnee, Seneca, Delaware, Miami e così via. Aveva dei validi aiuti: l’esperto Buc-kon-ga-he-las dei Delaware, Blue Jacket degli Shawnee e altri, tutti grandi combattenti. Anche uomini bianchi lo aiutavano, tre in special modo: Simon Girty, Matthew Elliott e Alexander McKee, che era in parte indiano. Erano tre disertori fuggiti dalla guarnigione americana di Fort Pitt nel 1778. Servendo i nemici del proprio paese, avevano continuato a vivere tra gli Shawnee e i Wyandot, e nella loro ferocia erano peggiori degli Indiani.
Nel villaggio principale di Piccola Tartaruga, situato poche miglia a sud est dell’odierna Fort Wayne, nell’Indiana, c’era un altro uomo bianco, un giovane. Il suo nome era stato William Wells, ma adesso era Serpente Nero. Gli Indiani lo avevano catturato nel Kentucky quando era un ragazzino; era cresciuto tra i Miami, aveva sposato la sorella di Piccola Tartaruga ed era considerato un guerriero Miami.
Il generale Josiah Harmar era un anno più giovane di Piccola Tartaruga. Entrambi erano veterani della Rivoluzione e avevano il comando di ottimi combattenti
Una piccola armata condotta da Jean François Hamtramck era in marcia da Vincennes, a nord, per distogliere le tribù Wabash, ma era in forte ritardo e finì per tornare a Vincennes. Al 14 ottobre le truppe di Harmar erano giunte a meno di 40 km da Kekionga. Quel giorno alcune guide del Kentucky catturarono uno Shawnee. Dopo un intenso interrogatorio, l’indiano disse che Miami e Shawnee si stavano radunando a Kekionga per contrastare l’esercito di Harmar. Il 15 ottobre, prima dell’alba, Harmar inviò 600 uomini al comando del colonnello John Hardin per sorprendere, con una marcia forzata, gli Indiani a Kekionga. Raggiunto l’obiettivo, le truppe di Hardin trovarono che il villaggio era stato abbandonato e incendiato. Distrussero quel poco che era rimasto e si accamparono a sud del villaggio, aspettando l’arrivo di Harmar.
Il 17 ottobre Harmar raggiunse altri villaggi Miami, ma i Nativi erano stati allertati e avevano evacuato i loro villaggi con tutti i rifornimenti che potevano portare.
Guerriero Miami-Wea – dipinto di George Catlin
Alcuni commercianti simpatizzanti per gli Inglesi vivevano tra i Miami; essi fuggirono a Fort Detroit con le loro famiglie e i loro beni, non prima di aver distribuito tutte le armi e munizioni disponibili fra i guerrieri Miami. Gli Indiani erano bene informati sulla consistenza e i movimenti dell’armata di Harmar, e perfino sulla predilezione di Harmar per gli alcolici. Gli Americani razziarono tutto il cibo lasciato dagli Indiani nei villaggi abbandonati.
A questo punto il generale Harmar fece il primo errore. Distaccò trenta regolari del Primo Fanteria al comando del capitano John Armstrong e centocinquanta uomini della milizia, comandati da Hardin, oltre che un reparto di cavalleria, agli ordini del maggiore James Fontaine, per inseguire gli Indiani in ritirata e possibilmente distruggere altri villaggi. Ciò per valutare le forze degli Indiani e attaccare il campo del capo Le Gris.
Battaglia di Heller’s Corner
La spedizione arrivò a poche miglia da Kekionga, dove trovò un Indiano a cavallo, che si diede alla fuga seguendo un sentiero secondario che portava fuori dal villaggio. Hardin ordinò ai suoi di inseguirlo, ma inviò anche la cavalleria del maggiore Fontaine a raccogliere una compagnia che era stata lasciata indietro. L’Indiano altro non era che un’esca, che attirò Hardin in una palude vicino al fiume Eel, nella quale egli non poteva né avanzare né ritirarsi. Gli Indiani, condotti da Piccola Tartaruga, attaccarono l’armata di Hardin da tre lati con tomahawk e coltelli. La maggior parte degli uomini della milizia, malamente addestrati, fuggirono in preda al panico, andando ad avvertire la cavalleria di Fontaine di allontanarsi. I guerrieri di Piccola Tartaruga non si curavano della milizia e lasciarono fuggire i suoi componenti. I regolari, assieme a diversi uomini della milizia, restarono sul posto. Ne sopravvissero solo 8 su 30, mentre nell’inseguimento successivo furono uccisi 40 miliziani e 12 restarono feriti. Degli scampati, l’alfiere Asa Hartsborne, del Connecticut, nella fuga inciampò in un tronco e rimase a terra nascosto finché riuscì a fuggire, mentre il capitano Armstrong si salvò la vita nascondendosi nella palude e restandovi per tutta la notte, mentre a solo di meno di 200 metri da lui il nemico effettuava una danza di guerra sopra i corpi dei caduti: gli Indiani erano fieri di aver battuto un’armata ben addestrata, che aveva combattuto valorosamente.
Armstrong incolpò della sconfitta Hardin e la milizia, dichiarando che solo circa 100 Indiani erano stati coinvolti nella battaglia. Questo era il numero approssimativo dei guerrieri disponibili nei villaggi di Kekionga e Le Gris. La battaglia viene spesso designata come “La disfatta di Hardin”. Il giorno dopo, il generale Harmar con tutta la sua armata avanzò verso i villaggi Miami. Piccola Tartaruga li aveva fatti incendiare e il generale distrusse i campi di granturco e gli alberi da frutta. Non vedendo Indiani da combattere, risolse di tornare a Fort Washington. Dopo aver percorso circa dieci miglia, le sue guide gli riferirono che gli Indiani si stavano nuovamente radunando nei loro villaggi. Era il 20 ottobre 1790 quando il generale Harmar inviò un distaccamento di 300 uomini al comando dell’alfiere Phillip Hartshorn verso nord, a spiare i movimenti degli Indiani. Otto miglia sopra Kekionga, Hartshorn subì un’imboscata da parte di una grossa banda di Indiani, che uccise lui e 19 dei suoi uomini.
Mappa della battaglia di Heller’s Corner
Invece di avanzare immediatamente per attaccare gli Indiani, Harmar si ritirò per parecchie miglia a sud di Kekionga e non organizzò neanche una degna sepoltura per i suoi venti caduti. Il morale era a terra e gli uomini arrabbiati per il comportamento codardo del loro comandante. Hardin chiese il permesso di attaccare gli Indiani con 400 uomini o, quantomeno, di seppellire i commilitoni morti.
Battaglia di Pumpkin Fields
A questo punto, il generale Harmar fece un secondo errore. Invece di condurre lui stesso un attacco, egli inviò a cercare gli Indiani il colonnello Hardin con 300 uomini della milizia e 60 regolari del First American Regiment, comandati dal maggiore John P. Wyllys. All’alba del 22 ottobre trovarono circa mille Nativi accampati a Kekionga. Hardin, nel timore che gli Indiani potessero allontanarsi e sfuggire così alla sua vendetta, mandò subito una staffetta per richiedere rinforzi ad Harmar. Quando il corriere riferì ad Harmar (si diceva che avesse bevuto molto) la consistenza delle forze nemiche, questi rimase visibilmente scosso. Poi predispose i suoi restanti 800-900 uomini in posizione difensiva in un avvallamento e rifiutò di accorrere in aiuto di Hardin, lasciandolo da solo a fronteggiare un nemico forte di più del doppio dei suoi uomini. Il colonnello Hardin, che si aspettava di ricevere i rinforzi da un momento all’altro, divise il comando in quattro gruppi, comandati rispettivamente dai maggiori Wyllys, Hall, Fontaine e McMullen. Aveva programmato di attaccare gli Indiani da tutti i lati. Comunque i Nativi, il cui comandante era Piccola Tartaruga, attaccarono per primi, con piccoli gruppi che sparavano sulla milizia e si ritiravano repentinamente. La milizia in molti casi si mise all’inseguimento, finché i soldati regolari, che seguivano lentamente, si trovarono del tutto isolati e in difficoltà. Infatti Piccola Tartaruga attaccò il distaccamento del maggiore Wyllys, con risultati altrettanto devastanti di Heller’s Corner. Nel frattempo il maggiore Fontaine conduceva una carica di cavalleria in una zona boscosa e cadde in un’imboscata. Presto gli Shawnee e i Miami presero le forze di Hardin da tre lati. La battaglia si sviluppò in un feroce corpo a corpo, dove tutti combattevano valorosamente; ma quando un soldato infilzava un nemico con la baionetta, due tomahawks gli colpivano il cranio. La milizia tornò indietro, verso la zona dello scontro, troppo tardi. Sempre aspettando i rinforzi di Harmar, gli uomini di Hardin continuarono a difendersi, tenendo a bada gli Indiani per oltre tre ore, prima di ritirarsi per riunirsi al resto dell’armata.
La battaglia fu chiamata dagli Indiani Battaglia di Pumpkin Fields (Battaglia dei campi di zucche), perché il vapore emanato dai crani scalpati ricordava loro quello delle zucche nell’aria dell’ autunno. L’armata degli Americani ebbe 129 uomini morti in azione (14 ufficiali, tra cui i maggiori Wyllys e Fontaine, e 115 arruolati regolari) e 94 feriti, 50 dei quali regolari; la milizia perse un maggiore, due capitani e oltre 90 uomini. I caduti nativi si pensa fossero compresi fra i 120 e i 150. Indubbiamente la vittoria era di Piccola Tartaruga. Il generale Harmar non si era dimostrato un buon comandante e il colonnello Hardin non aveva saputo trovare il modo di combattere gli Indiani sul loro terreno.
Harmar era giunto alla determinazione di non poter attaccare. L’avvicinarsi dell’inverno metteva ulteriormente in pericolo la sua azione, la milizia si era ritirata e i cavalli erano alla fame. L’armata in ritirata raggiunse Fort Washington il 3 novembre 1790. Era stata la peggiore sconfitta dell’esercito americano contro gli Indiani fino a quel momento. Nel 1791 la corte marziale assolse Harmar da ogni addebito per la sua condotta durante la campagna. Il presidente Washington divenne furioso alla notizia della sconfitta e si lamentava: “Il mio animo…è preparato al peggio, cioè a sopportare grandi oneri senza ricavare onore né profitto.”
Ora Piccola Tartaruga era riconosciuto da tutti come un eroe indiano e le tribù del Territorio del Nord Ovest presero animo per continuare a resistere agli Stati Uniti. Comunque egli aveva capito che gli Americani avevano altri ufficiali e che il generale Washington non era uomo da tirarsi indietro. Ci sarebbe stato un altro esercito. Così passò la maggior parte dell’inverno a visitare varie tribù e ad allearsi con loro. Arrivò fino all’Ontario canadese e là attrasse nella sua orbita la nazione algonchina dei Missisauga. Ad ovest arrivò fino al fiume Illinois. Il suo comportamento era quello di un secondo Pontiac.
Il massacro di Big Bottom
Un gruppo di circa 36 coloni della Miami Company avevano risalito il fiume partendo da Marietta, occupando la zona ad est del fiume Muskigum, un terreno sul quale la Compagnia non aveva alcun titolo di proprietà.
Massacro di Big Bottom: la moglie di Isaac Meeks cerca di opporsi agli Indiani
Nacquero subito tensioni con i Nativi della zona. Alla fine di dicembre del 1790, il colonnello William Stacy, un veterano di guerra, pattinò per trenta miglia sul fiume ghiacciato per avvertire due dei suoi figli, residenti nell’insediamento di Big Bottom, del pericolo di un attacco indiano. Il 2 gennaio 1791, l’insediamento venne sottoposto ad un’incursione da parte di guerrieri Lenape e Wyandot, che uccisero diversi coloni.
Quest’azione venne chiamata “Massacro di big Bottom”. Secondo la “Ohio Historical Society”, in quest’attacco perirono nove uomini, una donna e due bambini. Tra le vittime, John e Philip Stacy, figli del colonnello Stacy, che evidentemente non era giunto in tempo per salvarli. John cadde durante l’attacco indiano, mentre Philip fu preso prigioniero e morì più tardi.
Assedio di Dunlap’s Station
Dunlap’s Station, fondata all’inizio del 1790 e più tardi ribattezzata Fort Colerain, sorgeva sulla riva orientale del Gran Fiume Miami. Essa aveva tre funzioni principali: caposaldo dell’espansione americana in un paese recentemente sottratto agli Inglesi e che faceva parte del territorio indiano; base per la speculazione terriera del New Jersey; insediamento per coloni, con i loro campi e pascoli.
La Miami Company, che si occupava dello sviluppo di quelle terre, aveva ingaggiato come supervisore l’irlandese John Dunlap, che condusse là un primo gruppo di uomini, donne e bambini. Il posto era vicino ad un insediamento vecchio di almeno 2000 anni, “Colerain Township Group” (una recinzione geometrica in pietra posta su di una collina), e ad alcuni “mounds” della cultura Adena. Si pensava che questo pianoro alluvionale avrebbe attratto gli insediamenti dei coloni e che i Nativi potessero aver dimenticato il significato di questi vecchi sacri siti.
I coloni avevano gradito quella terra, costruito la stazione e coltivato i campi al di fuori di essa durante la prima estate. Vennero costruiti fortini come rifugio dagli attacchi dei Nativi, dato che questa era tuttora terra degli Shawnee. Mentre coloni e Indiani confinanti erano riusciti a condividere una prima festa di Natale, venne fatta una richiesta a Fort Washington perché venisse inviata una guarnigione militare. Al forte venne assegnato un piccolo distaccamento di truppe regolari, consistente in un caporale e 11 uomini, oltre al comandante. Per la guarnigione erano stati costruiti tre fortini, mentre le dieci abitazioni dei coloni erano poste le une di fronte alle altre. Si predispose una linea di fuoco per sgomberare il terreno da arbusti e alberi caduti, ma questo lavoro non venne completato. Un altro punto debole era che i tetti spiovevano all’esterno ed avevano i bordi talmente bassi che, per esempio, i cani entravano nel forte passando per quella via. A questo si pose rimedio, ma c’erano ancora spazi aperti fra alcune costruzioni. Questi vennero chiusi con alte palizzate di tronchi d’albero, che si estendevano fin sulla sponda del fiume.
Convinti che le inesperte milizie americane fossero vulnerabili alle incursioni di guerrieri compatti, nei mesi di novembre e dicembre 1790 i capi delle tribù confederate si incontrarono con agenti indiani inglesi per pianificare incursioni simultanee su Backer’s Station e Dunlap’s Station. A Simon Girty, un bianco di origine scozzese-irlandese, adottato dagli Indiani, venne assegnata la leadership di questi attacchi. Comunque tutto cominciò due giorni prima dell’assedio vero e proprio, quando, l’8 gennaio 1791, una pattuglia di quattro uomini (civili e militari che non venivano da Dunlap Station) che ispezionava una radura nelle vicinanze dell’abitato, venne sorpresa e attaccata da esploratori indiani, appartenenti alle tribù Shawnee, Miami, Lenape, Wyandot, Potawatomi, Ottawa e Ojibwa. Dei quattro, Cunningham venne ucciso e scalpato, Abner Hunt fu catturato, Sloan fu ferito e Wallace lo aiutò a guadagnare la salvezza presso la Stazione.
I coloni e i soldati, sotto il comando del tenente Jacob Kingsbury, si radunarono nei fortini per prepararsi all’attacco indiano. Ciò comprendeva anche che le donne fondessero le stoviglie per farne proiettili. Sorprendentemente, la domenica gli Indiani permisero a Wallace di raggiungere il corpo di Cunningham e seppellirlo sul posto, e di tornare al forte senza alcuna molestia. Più tardi Cone (uno degli occupanti di Dunlap’s Station) scrisse: “Questa notte è piovuto, poi è gelato ed è caduta la neve per un’altezza di quattro o cinque pollici…” Questo fatto si sarebbe dimostrato fatale per il previsto attacco con frecce incendiarie e torce. Il 10 gennaio gli Indiani si avvicinarono alla stazione, vantandosi di essere guidati dal “selvaggio” Simon Girty e chiesero la resa servendosi del loro prigioniero come interprete. Questo colloquio durò circa un’ora e avvenne sul lato est del forte. Si sviluppò una scarica di fucileria dal lato del fiume opposto a quello dove si svolgevano le trattative. La sparatoria continuò per altre due ore, ma venne ignorata dagli assediati. Gli attaccanti allora si ritirarono verso sera, ma presumibilmente avevano sfruttato il tempo per macellare il bestiame. Il prigioniero Abner Hunt venne ucciso in circostanze controverse. Mentre i fratelli Girty vennero sospettati di essere stati presenti per istigare l’esecuzione di Hunt, un’indagine successiva, culminata con un rapporto nel 1843, ha stabilito che sembra più probabile che fosse stato Blue Jacket a condurre questo attacco, mentre Girty si trovava a Baker’s Station, sulla sponda virginiana dell’Ohio. Il 12 gennaio, un dettagliato rapporto scritto di Kingsbury ad Harmer definì questo semplicemente “un omicidio”, ma le accuse di tortura erano molto fondate. Wallace era sfuggito alla convocazione per rinforzare la truppa, che era stata subito diramata. Il combattimento riprese allo spuntar dell’alba del giorno dopo, l’11 gennaio, ma comunque i Nativi scarseggiavano di armi per l’assedio. Si ritirarono attorno alle 8 del mattino, prima che i rinforzi da Fort Washington arrivassero, attorno alle 10. Più tardi Kingsbury si vantò degli scalpi che i suoi uomini avevano preso.
La battaglie in Ohio dal 1775 al 1794
Il 14 gennaio Kingsbury venne elogiato da Harmer. Nessuna menzione venne fatta dell’episodio avvenuto quando dagli Indiani venne concessa a Wallace la possibilità di recuperare il corpo di Cunningham. Invece la possibilità che un sorvegliante fosse stato torturato durante i tentativi di catturare il piccolo forte, fu largamente proclamata come prova della disumanità dei “selvaggi”. Solo due settimane dopo la stampa sembrò cominciare a enfatizzare la notizia: “Il tenente rispose che, anche se essi fossero stati trecento diavoli, non si sarebbe arreso; e immediatamente fece fuoco sugli Indiani, dodici dei quali caddero uccisi. I rimanenti, dopo aver squartato Hunt, in vista del forte fecero una rapida ritirata: della guarnigione, nessuno venne ferito o ucciso.” Tra la fine del 1791 e l’inizio del 1792, dopo aver ricevuto rapporti di questo tenore, Thomas Jefferson e George Washington ne rimasero scossi. Vennero preparati dei piani per avere un forte più poderoso nell’anno seguente, possibilmente sulla sponda occidentale del fiume Big Miami, ma, a quanto pare, non venne mai costruito. George Washington non approvò ufficialmente nulla del Symmes Purchase (o Miami Purchase) fino al 1794 e molte altre diatribe legali tormentarono queste transazioni. Si trattava di un’area di circa 330.000 acri nel sud ovest dell’Ohio, acquistata dal giudice John Cleves Symmes, del New Jersey, dal Congresso Continentale.
Un rapporto storico del 1881 definisce la vicenda di Dunlap’s Station “il più violento e prolungato attacco indiano registrato negli annali della contea di Hamilton…” La stazione in seguito venne abbandonata per due volte, essendo troppo vulnerabile. Le proprietà del coloni furono definitivamente annullate da Washngton e solo dopo la sconfitta della confederazione di Tecumseh l’area venne occupata con successo. La stazione era stata la chiave per la sopravvivenza dei coloni in quelle che divennero le contee di Hamilton, Butler e Warren.
La Campagna delle More
A metà dell’anno 1791, Washington incaricò il governatore Scott di condurre una serie di incursioni preliminari con lo scopo di tenere occupato il nemico, nel mentre St. Clair radunava il corpo d’armata principale. Sia Isaac Shelby che Benjamin Logan avevano sperato di essere a capo della campagna e nessuno dei due avrebbe accettato una posizione di comando inferiore. Ciononostante Shelby appoggiò l’azione, mentre Logan vi si oppose attivamente. Per questo scopo Scott indisse una leva di volontari che si radunarono a Frankfort, nel Kentucky, il 15 maggio 1791. I Kentuckiani risposero con favore all’idea di una campagna condotta solo da volontari, tant’è che all’arruolamento si presentarono 852 uomini, sebbene Scott fosse autorizzato ad accettarne solo 750; tra i volontari si era presentato anche il senatore John Brown. Dopo una breve dilazione, nell’attesa della sorte di una missione diplomatica (fallita) presso le tribù Miami nei territori del Nord Ovest, il 24 maggio gli uomini di Scott partirono da Fort Washington. Gli uomini della milizia attraversarono l’Ohio verso il gruppo di insediamenti Miami, Kickapoo, Wea e Potawatomi posti nelle vicinanze dell’odierna Lafayette, nell’Indiana. Per otto giorni si addentrarono in un terreno accidentato, bersagliati da frequenti forti piogge. Le dure condizioni di questa marcia assottigliarono i rifornimenti della spedizione, che fu costretta a raccogliere le more che crescevano abbondanti nella zona; per questa ragione la spedizione assunse il soprannome di “Campagna delle Fragole”.
Quando, l’1 giugno, gli uomini di Scott raggiunsero un’aperta prateria vicino all’insediamento Wea di Ouiatenon, furono avvistati da un esploratore indiano e si affrettarono all’attacco del villaggio prima che gli abitanti potessero reagire. Quando il corpo principale dell’armata arrivò al villaggio, trovò i residenti che fuggivano frettolosamente sulle canoe lungo il fiume Wabash.
Guerriero Wea – dipinto di G. Catlin
Aiutati dal fuoco di copertura dei guerrieri di un villaggio Kickapoo posto sull’altra sponda del fiume, i Wea riuscirono a fuggire prima che gli uomini di Scott potessero attaccare. Il fiume era troppo largo per essere guadato dalla posizione in cui si trovava Scott, per cui egli inviò un distaccamento comandato da James Wilkinson in una direzione, e un altro gruppo, agli ordini di Thomas Barbee, nell’altra, perché cercassero un punto adatto al guado. Wilkinson non riuscì a trovare una posizione sfruttabile, ma individuò ed eliminò una piccola banda di Indiani prima di tornare indietro. Invece Barbee individuò un punto guadabile e condusse una breve incursione contro gli Indiani sull’ altra riva, prima di tornare da Scott. Il mattino dopo il corpo principale della spedizione di Scott incendiò villaggi e colture nelle vicinanze, mentre Wilkinson, con un suo distaccamento, si mise in marcia verso il villaggio di Kethtippecannunk. Gli abitanti di quest’insediamento erano fuggiti attraversando l’Eel Creek e, dopo una breve e inefficace sparatoria, gli uomini di Wilkinson incendiarono il villaggio e si ricongiunsero con le forze di Scott. Nel suo rapporto ufficiale, Scott annotò che molti degli abitanti di Kethtippecannunk erano francesi e pensò che ciò dipendesse dal fatto che fossero collegati all’insediamento francese di Detroit, e forse dipendenti direttamente da quello.
A corto di rifornimenti, Scott e i suoi uomini posero fine alla campagna. Nel viaggio di ritorno due uomini annegarono nel White River, e furono le uniche morti nei ranghi di Scott in questa campagna. Altri cinque erano feriti, ma sopravvissero. In totale, avevano ucciso 38 Indiani e preso almeno 58 prigionieri. Scott mandò avanti dodici uomini con il rapporto ufficiale da sottoporre ad Arthur St. Clair; il resto della truppa arrivò a Fort Steuber (oggi Clarksville, Indiana) il 15 giugno. Il giorno dopo Scott riattraversò il fiume Ohio e ricevette il foglio di congedo a Louisville, nel Kentucky.
Battaglia di Kenapacomaqua
Nel 1791 il governatore del Territorio del Nord Oves, Arthur St. Clair, approntò un’armata per aggredire Kekionga, in risposta alla disfatta di Harmar dell’anno prima. Egli intendeva inviare forze separate per distogliere la coalizione difensiva delle tribù native. Ma ritardi nella preparazione fecero sì che l’incursione del tenente colonnello Wilkinson cominciasse prima che l’armata principale si mettesse in moto. Le truppe di Wilkinson, più di 500 uomini della milizia del Kentucky, lasciarono Fort Washington il 1 agosto 1971. Arrivò a Kenapacomaqua il 7 agosto e attaccò immediatamente. Nello scontro morirono due Kentuckiani e nove Miami. Per testimonianza dello stesso Wilkinson, dei Miami uccisi solo sei erano guerrieri, due erano donne e uno era un bambino. Vennero presi prigionieri 34 Indiani, compresa la stessa moglie del capo di guerra Piccola Tartaruga. Inoltre, nel villaggio venne trovato un Americano prigioniero, subito liberato. Quindi Wilkinson diede fuoco al grano immagazzinato nell’insediamento di Ouiatenon, trovato deserto, prima di far ritorno in Kentucky seguendo la strada che Scott aveva tracciato nell’azione di poco tempo prima.
Il generale St. Clair e il presidente Washington si compiacquero entrambi dell’azione di Wilkinson. Per ricompensa, allo stesso venne affidato il comando del Secondo Reggimento degli Stati Uniti. Ma comunque, il successo di Wilkinson fu dovuto a circostanze a lui stesso ignote al momento della sua incursione. Quando egli condusse l’attacco, i capi nativi del territorio del Nord Ovest erano riuniti in un gran consiglio indetto dall’agente indiano britannico Alexander McKee. Altri capi dell’alleanza stavano viaggiando verso Quebec, per richiedere un nuovo forte inglese a Miami Rapids, per mutua difesa. Circa 60 uomini del villaggio Wea dell’Anguille erano partiti per una missione di ricognizione, mentre altri erano a Vincennes, nell’Indiana, per acquisire provviste. Dei Wea lasciati a l’Anguille, molti soffrivano di una malattia sconosciuta scoppiata nella regione.
Nel frattempo, al consiglio di Quebec, il governatore Guy Carleton, Primo Barone di Dorchester, appoggiava la pace e la rappresentanza degli Indiani partì con patti e condizioni da presentare agli Stati Uniti. Ma quando arrivò a Fort Detroit ricevette notizia dell’incursione di Wilkinson e dell’avanzata di St. Clair. L’intero gruppo partì immediatamente per porsi alla difesa di Kekionga.
La disfatta di Saint Clair
Il generale governatore Saint Clair era un valoroso veterano dell’esercito continentale americano, dell’età di 57 anni e dai capelli grigi. Nel 1758 era giunto in America come giovane ufficiale di un reggimento scozzese dell’esercito britannico, per combattere nella Guerra Franco-Indiana. Dopo la guerra divenne un vero Americano, cittadino della Pennsylvania, e aveva servito come colonnello e maggiore-generale nei “Buff and Blue” – bruno e blu, dai colori della divisa dell’esercito americano, nella Guerra d’Indipendenza. Nelle sue campagne era stato sfortunato, ma nessuno dubitava del suo coraggio. Il generale Washington credeva fermamente in lui e si prese la briga di dirgli di persona, prima della partenza: “Guardati dagli agguati. Tu sai come combattono gli Indiani. Così, ti ripeto, guardati dagli agguati.”
A Saint Clair erano stati promessi tremila uomini, ma quando, nel settembre del 1791 lasciò Fort Washington, non ne aveva più di duemila. Era sempre un’armata poderosa, che comprendeva la maggior parte dell’intero esercito degli Stati Uniti. C’erano il Primo e Secondo Fanteria, due compagnie di artiglieria, una compagnia di fucilieri volontari a cavallo e seicento miliziani del Kentucky. Il maggior – generale Richard Butler, della Pennsylvania, era l’ufficiale di campo al comando; un certo numero di altri ufficiali si erano formati sotto il comando di Washington. Ma il Secondo Reggimento era nuovo, formato l’ultima primavera, e composto per lo più da reclute. Nel viaggio parte di costoro disertarono. Il Primo Reggimento fu mandato a recuperarli. A continuare la marcia in territorio indiano restarono 1400 uomini. Il generale St. Clair era così tormentato dai reumatismi e dalla gotta che poteva a malapena salire a cavallo. Venti miglia a nord di Fort Washington si fermò abbastanza da edificare Fort Hamilton; venti miglia più avanti fece costruire Fort Saint Clair; e, ancora venti miglia più avanti, Fort Jefferson, nelle vicinanze dell’odierna città di Greenville, in Ohio. Stava marciando lungo il confine tra Indiana e Ohio, per colpire i villaggi Miami.
Arthur St. Clair
La sera del 2 novembre St. Clair era giunto a circa cinque miglia dal villaggio principale di Piccola Tartaruga. Oggi il posto si chiama Fort Recovery e si trova nell’Ohio del nord, al confine con l’Indiana. Piccola Tartaruga era pronto. Aveva 1200 uomini. Buckongahelas, il Delaware (Lenape) e Blue Jackett, lo Shawnee, erano con lui; così un capo dei Missisauga (tribù algonchina), che era stato addestrato dagli ufficiali inglesi; così Simon Girty, l’indiano bianco selvaggio; così un certo numero di mezzo-sangue francesi e canadesi, provenienti dal Canada e dall’Illinois; ed è pure appurato che vi fossero parecchi ufficiali inglesi di Detroit, desiderosi di vedere i loro vecchi nemici battuti. Le loro divise rosse vennero notate nella battaglia, il giorno dopo. Il generale St. Clair era un buon soldato e un buon organizzatore. Alle sue spalle aveva disposto una serie di depositi di provviste. Aveva disposto che nell’accampamento ogni mattina la sveglia fosse suonata due ore prima dell’alba, e che gli uomini fossero tenuti in esercitazione fin quasi allo spuntar del sole, per prevenire sorprese. Cercava di essere scrupoloso.
Il pomeriggio del 3 novembre, per l’accampamento aveva scelto una eccellente posizione, dalla quale alcuni Indiani erano fuggiti all’apparire delle truppe. Era in alto, compatta e protetta da un torrente. Egli posizionò il grosso delle truppe in due linee, separate da circa 70 yarde e rivolte in direzioni opposte. I suoi esploratori avevano riferito che gli Indiani si stavano raccogliendo in forze a circa dodici miglia di distanza. La sua intenzione era di fortificare l’accampamento, in modo che gli zaini e gli altri bagagli potessero essere lasciati sul posto; e, non appena fosse giunto il Primo Reggimento, che era in ritardo, scatenare l’attacco. Anche gli scout di Piccola Tartaruga erano stati attivi. Avevano sorvegliato la marcia dei soldati, l’accampamento, controllato l’entità numerica della fanteria dell’artiglieria e delle cavalleria. E si erano preoccupati di quello che avevano visto. C’erano un vecchio generale e diversi ufficiali, tutti esperti nell’arte della guerra. Che fare ora?
Piccola Tartaruga convocò un gran consiglio di tutti i capi. Si discusse se attaccare l’accampamento di St. Clair o tentare un’imboscata sul campo. Piccola Tartaruga era favorevole ad un attacco all’accampamento: il vecchio generale avrebbe potuto aspettarsi un’imboscata, ma non un attacco contro un campo ben difeso come il suo. Una massima di guerra dice: “Non fare mai quello che il nemico si aspetta che tu faccia.” Il capo Missisauga era d’accordo con Piccola Tartaruga. Era un individuo alto, robusto e fiero, di carnagione scura e sguardo severo. Indossava i leggings (pantaloni attillati) e mocassini. Una lunga camicia blu, una veste di broccato, un cappotto invece del mantello e un turbante tempestato da circa duecento spille d’argento. Appesi alle orecchie portava due braccialetti, lunghi 12 pollici, formati da medaglie d’argento e quarti di dollaro; al naso tre piccoli gioielli d’argento dipinto. Era ascoltato con rispetto come un grande capo di guerra e, assieme a Piccola Tartaruga, condusse il consiglio. Si giunse alla decisione di recarsi all’accampamento nemico e aspettare il momento di colpire. Sotto la direzione del comandante in capo Piccola Tartaruga, l’esercito indiano si mosse con cautela nell’oscurità della notte e venne schierato con le stesse modalità di un esercito di bianchi: i Miami stavano al centro; Wyandot, Delaware e Seneca tenevano il lato destro; Ottawa, Potawatomi, Shawnee e altri stavano alla sinistra. Potevano già udire i richiami delle sentinelle all’accampamento del vecchio generale. Due ore prima dell’alba udirono i tamburi che davano la sveglia. I soldati di “Capelli Grigi” erano in allerta. Nascosti al sicuro, i guerrieri di Piccola Tartaruga aspettavano. Potevano vedere le tende delle avanguardie della milizia, accampate a un quarto di miglio dallo stesso lato del torrente. Dietro, dove era l’accampamento principale, il fumo dei fuochi cominciava a divenire più denso. Verso lo spuntare del sole i soldati erano stanchi di stare nei ranghi. L’ora dell’alba, quella di un possibile attacco di sorpresa degli Indiani, era passata. La tromba e il rullo dei tamburi diedero il “rompete le righe”. Dopo aver impilato i fucili, i soldati rientravano nelle tende o si assiepavano attorno ai fuochi per la colazione. Cominciava un altro giorno.
Piccola Tartaruga diede ancora un po’ di tempo ai soldati, in modo che si sistemassero e cominciassero a dormicchiare, quindi diede il segnale. Il generale Saint Clair giaceva malato nella sua tenda. Risuonò in distanza un colpo di fucile, subito seguito dal crepitare di una scarica di fucileria, proveniente da mezzo migliaio di fucili e da una raffica ancor più intensa sparata in risposta dai moschetti della milizia. Piccola Tartaruga aveva diretto il primo attacco contro la milizia, che era subito fuggita attraverso una palude, abbandonando a terra le armi. L’accampamento corse alle armi, perché ufficiali e truppa sapevano il fatto loro; ma in quel momento arrivarono gli uomini della milizia, come una mandria di bestiame imbizzarrita, saltellando freneticamente alla ricerca di scampo da un’orda di Indiani che urlavano e scagliavano frecce. La milizia si tuffò attraverso le linee dei regolari, proprio al centro dell’accampamento; per un breve periodo vi fu il caos.
Guerriero Seneca
L’aiutante generale Winthrop Sargent aveva appena finito di redarguire la milizia per aver fallito nel predisporre le pattuglie di ricognizione, che gli Indiani attaccarono, invadendo l’accampamento nemico. Fu un combattimento furioso. Ricomponendo le loro linee, i regolari si attestarono meglio e contrastarono la carica con una fragorosa sparatoria dei loro moschetti a canna lunga, gli stessi usati a Brandywine, Princeton e Yorktown. La strategia di Piccola Tartaruga e dei suoi capi era eccellente. Essi cambiavano continuamente il punto d’attacco, attaccando entrambe le linee nemiche nello stesso momento. Si servivano di ogni elemento che potesse fornire una copertura dal fuoco nemico, sembrando costantemente sempre più vicini. Uccidevano ogni cavallo e ogni soldato che si trovassero al centro.
Del Secondo Fanteria, caddero tutti gli ufficiali eccetto due. Il generale Butler si spostava con coraggio su e giù per la linea dei suoi soldati, incoraggiando le truppe; il generale Saint Clair zoppicava eroicamente su e giù per l’altra linea. Otto pallottole forarono la sua giubba e una ciocca di capelli gli venne spazzata via. Il generale Butler venne colpito due volte; e mentre era semisdraiato, ferito mortalmente, un Indiano balzò in avanti e lo colpì con il tomahawk.
L’esercito di Saint Clair stava cadendo a pezzi. Il generale ordinò cariche alla baionetta; ma quando queste avanzavano, gli Indiani riapparivano più fitti che mai. Il campo americano venne invaso e saccheggiato. Circa 250 donne, tra le quali la graziosa figlia del generale, avevano accompagnato l’esercito; e loro soffrirono terribilmente.
Nel frattempo, i pezzi d’artiglieria di St. Clair, posizionati su di un’altura vicina, erano appena stati fatti ruotare in posizione, quando tiratori scelti indiani spararono sugli artiglieri facendone strage; i sopravvissuti furono costretti a disattivare i cannoni. Il colonnello William Darke ordinò al suo battaglione di fissare le baionette e caricare la posizione principale degli Indiani. I guerrieri di Piccola Tartaruga agevolarono quest’azione, ritirandosi nei boschi, ma solo per circondare il battaglione di Darke e distruggerlo. Si tentarono altri assalti alla baionetta per numerose volte, ma sempre con risultati simili all’azione di Darke. Alla fine le forze statunitensi precipitarono nel disordine. St. Clair ebbe tre cavalli uccisi sotto di lui, mentre tentava invano di radunare i suoi uomini. Dopo tre ore di combattimento, St. Clair convocò tutti gli ufficiali rimanenti e, paventando l’annientamento totale, decise di tentare un’ultima carica alla baionetta, allo scopo di sfondare le linee nemiche e fuggire. Provviste e feriti furono lasciati nell’accampamento. Come in precedenza, l’armata di Piccola Tartaruga lasciò che i soldati attraversassero le loro linee, ma questa volta gli esausti Americani si diressero verso Fort Jefferson, che distava 29 miglia. Piccola Tartaruga, il capo Missisauga e Simon Girty, che avevano diretto l’attacco, dopo un inseguimento di quattro miglia, vedendo che i soldati erano in una fuga veloce, avevano gettato via i fucili, gli zaini e tutto quello che potevano, ordinarono di cessare l’inseguimento e di saccheggiare l’accampamento di St. Clair. La vittoria era stata schiacciante; erano stati presi sette cannoni, duecento capi di bestiame e molti cavalli. I guerrieri tornarono ai villaggi con 120 scalpi, appesi ad un unico palo e con tre cavalli da tiro carichi di barilotti di liquore.
Non è noto l’esatto numero dei feriti che erano stati lasciati al campo dall’esercito in fuga (si dice circa 200), ma venne riferito che fuochi di tortura rituale avevano continuato a bruciare per parecchi giorni ancora. Il numero delle perdite raggiunse la più alta percentuale mai sofferta da un esercito americano e includeva anche il secondo comandante di St. Clair. Dei 52 ufficiali arruolati, 38 caddero in combattimento e 7 rimasero feriti, col risultato che l’88% degli ufficiali fosse tra le perdite. Morirono anche 50 donne.
“In effetti si è trattato di una fuga”, scriveva qualche giorno dopo St. Clair al Segretario della Guerra. Di 920 soldati ne furono uccisi 632, più quelli feriti che erano stati lasciati all’accampamento e poi massacrati dagli Indiani. Era stato distrutto all’incirca un quarto dell’intero esercito americano. Le perdite degli Indiani ammontavano a circa 61 guerrieri, di cui 21 sicuramente uccisi.
Il giorno dopo i sopravvissuti arrivarono al caposaldo più vicino, Fort Jefferson, da cui proseguirono per Fort Washington.
La confederazione delle tribù festeggiò con i trofei di guerra, ma la maggior parte dei combattenti, dopo la vittoria, tornarono alle loro sedi. Il raccolto del 1791 era stato insufficiente nella regione e i guerrieri dovevano cacciare, in modo da procurare sufficienti riserve di cibo in vista dell’inverno.
Mappa dell’accampamento di St. Clair
Si tenne un gran consiglio sulle rive del fiume Ottawa per stabilire se continuare la guerra contro gli Stati Uniti o negoziare una pace da posizioni di forza. Il consiglio rimandò la decisione finale ad un ulteriore grande consiglio che si sarebbe tenuto l’anno successivo.
Dopo la disfatta
Gli Inglesi, sorpresi e felici del successo degli Indiani, che essi avevano supportato e armato per anni, studiarono un piano per creare uno stato cuscinetto indiano che avrebbe dovuto comprendere la regione del Middle West fra l’Ohio e il Minnesota. Questo piano venne sviluppato in Canada, ma nel 1794 il governo di Londra cambiò idea e decise che era necessario guadagnare il favore degli Americani, dal momento che una guerra di portata maggiore era scoppiata con la Francia. Quindi l’idea dello stato cuscinetto venne tenuta in sospeso, mentre si aprivano negoziati amichevoli con gli Stati Uniti, che si conclusero lo stesso anno con il Trattato di Jay. Una delle clausole era che gli Inglesi acconsentivano alla richiesta di abbandonare i forti situati in territorio americano, cioè nel Michigan e nel Wisconsin. Comunque gli Inglesi mantennero i loro forti in Ontario, dai quali continuarono a fornire armi e munizioni agli Indiani che vivevano negli Stati Uniti.
Fort Jefferson non aveva sufficienti rifornimenti per quel che restava dell’armata di St. Clair, così tutti quelli che erano in grado di muoversi continuarono la ritirata. Molti feriti vennero lasciati indietro senza medicine e con poco cibo. L’11 novembre il generale St. Clair mandò da Fort Washington un convoglio di vettovaglie e cento soldati, comandati dal maggiore David Ziegler. Arrivato a Fort Jefferson, questi vi trovò 116 sopravvissuti che “mangiavano carne di cavallo e pellame.” Charles Scott organizzò una spedizione di soccorso con la milizia del Kentucky, ma questo gruppo finì per sciogliersi a fine novembre a Fort Washington senza aver intrapreso alcuna azione. Il tenente colonnello James Wilkinson assunse il comando del Secondo Reggimento nel gennaio 1792 e condusse un convoglio a Fort Jefferson. Questo distaccamento tentò di cremare i morti e raccogliere i cannoni perduti, ma l’incarico si dimostrò troppo gravoso, con “più di seicento corpi” sul campo di battaglia e almeno altri 78 lungo la strada.
Il presidente Washington si adirò molto quando a Filadelfia ricevette il rapporto della disfatta da parte del generale Saint Clair, nel gennaio 1792: un altro esercito americano – un’armata tanto capace da aver combattuto con successo in più di una battaglia della Rivoluzione – era stato messo in difficoltà e nettamente sconfitto dagli Indiani. St. Clair, nel fare il rendiconto dell’accaduto, incolpò sia il quartiermastro Samuel Hodgdon, sia il Dipartimento della Guerra; il generale richiese la convocazione di una Corte Marziale, in modo da ottenere l’assoluzione, avendo programmato di rassegnare le dimissioni dopo aver vinto il processo. In ogni caso Washington negò l’autorizzazione alla Corte Marziale e lo obbligò alle dimissioni immediate. La Camera dei Rappresentanti condusse indagini per suo conto in merito al disastro militare. Questa fu la prima indagine mai indetta da una Commissione Speciale del Congresso. Il rapporto finale della Commissione diede ragione a St. Clair, stabilendo che Knox, il quartiermastro generale Samuel Hodgdon e altri ufficiali del Dipartimento della Guerra non avevano fatto un buon lavoro nel reclutare, equipaggiare e supportare la spedizione di St. Clair. Comunque il Congresso votò contro una mozione volta a tener conto delle conclusioni della Commissione e non autorizzò un rapporto finale. St. Clair espresse il suo disappunto sul fatto che la sua posizione non fosse stata ufficialmente chiarita. Un settimana dopo aver appreso della sconfitta, Washington aveva scritto: “Noi siamo coinvolti in una vera e propria guerra!”. Aveva bisogno che il Congresso raccogliesse un esercito in grado di condurre con successo un’offensiva contro la confederazione indiana; nel marzo del 1792 effettivamente il Congresso votò il reclutamento di reggimenti addizionali per l’esercito, con leva triennale ed aumento della paga militare. Venne istituita una tassa sugli alcolici in modo da supportare l’aumento delle spese militari, fornendo i presupposti per la “Whiskey Rebellion” del 1794.
Nel mese di maggio 1792 venne approvato il “Militia Acts”, che stabiliva l’ordinamento della milizia nazionale e autorizzava il presidente a mobilitare la milizia. Il presidente Washington si sarebbe avvalso di questa autorità nel reprimere la “Ribellione del Whiskey”, causata dalle nuove tasse volte a sopperire alle spese per l’allestimento di un nuovo esercito. Sempre nel 1792 venne allestita la Legione degli Stati Uniti, sotto il comando del generale Anthony Wayne, soprannominato “Anthony il pazzo”, per aver dimostrato il suo valore nella guerra di Rivoluzione gettandosi a capofitto nelle mischie più cruente. La Legione era divisa in quattro sub-legioni o corpi, ciascuno composto di artiglieria, dragoni, fanteria e fucilieri. Ogni corpo era contraddistinto da un particolare colore delle fascia di stoffa che portava attorno al cappello.
La sconfitta di St. Clair aveva lasciato Fort Jefferson profondamente isolato in territorio nemico. Determinata a ricacciare i soldati americani verso il fiume Ohio, un’armata di Nativi (probabilmente sotto il comando di Simon Girty) assalì il forte all’inizio dell’estate 1792.
Illustrazione per un articolo sulla disfatta di St. Clair scritto da Theodore Roosevelt nel 1896
Quest’incursione cominciò il 25 giugno con un attacco di cento guerrieri contro una pattuglia che raccoglieva fieno per il forte; quattro soldati restarono uccisi e lasciati in mezzo al fieno, 15 furono catturati. Undici dei prigionieri vennero uccisi più tardi, mentre i quattro restanti furono mandati in un villaggio Chippewa. E’ possibile che poco più tardi venisse condotta un’altra incursione con l’intenzione di catturare o uccidere il capitano
Shaylor; se fosse vero un racconto riportato da fonti locali, l’amore di Shaylor per la caccia venne sfruttato da alcuni degli assedianti, che attirarono Shaylor e suo figlio nei boschi imitando il richiamo del tacchino selvatico. Mentre Shaylor riuscì a sfuggire al successivo inseguimento, suo figlio venne ucciso. L’assedio continuò ad intermittenza per tre anni, in quanto gli Indiani portarono continui attacchi per neutralizzare il forte. Il 29 settembre molti soldati vennero uccisi mentre facevano la guardia al bestiame a Fort Jefferson.
Fort St. Clair
Arthur Saint Clair, da governatore dell’Illinois, aveva ordinato di costruire una catena di forti a nord di Cincinnati in modo che il dominio degli Stati Uniti fosse proiettato nel territorio dei Nativi. Il comando delle forze armate statunitensi a Fort Washington era stato assunto dal tenente colonnello James Wilkinson. Wilkinson aveva notato che il percorso seguito dalle truppe americana in ritirata dopo la sconfitta di St. Clair, da Fort Hamilton a Fort Jefferson, richiedeva due giorni di viaggio, il che nella circostanza aveva contribuito ad aumentare le sofferenze dei feriti. Diede allora l’ordine di costruire Fort Saint Clair a distanza intermedia fra gli altri due forti, in modo da rendere più efficienti le comunicazioni e i rifornimenti dei convogli che percorrevano la catena degli avamposti americani.
Nel frattempo le tribù indiane tenevano un gran consiglio alla confluenza dei fiumi Auglaize e Maumee. Alexander McKee, che rappresentava gli interessi inglesi, arrivò a fine settembre. Per una settimana le fazioni pro-guerra, specialmente Simon Girty, gli Shawnee e i Miami, discussero con i moderati, in particolare le Sei Nazioni, rappresentate da Cornplanter e Giacca Rossa. Il consiglio stabilì che il fiume Ohio doveva restare la linea di confine con gli Stati Uniti, che i forti dell’Ohio dovevano essere distrutti e che nella primavera del 1793 si sarebbe tenuto un incontro con gli Stati Uniti, nella zona del basso corso del fiume Sandusky. Nel novembre del 1792, seguendo le decisioni del gran consiglio, Piccola Tartaruga condusse 200 guerrieri Miami e Shawnee al di là degli avamposti di Fort Jefferson e Fort St. Clair, raggiungendo Fort Hamilton il 3 novembre, con l’intenzione di portare un attacco agli insediamenti americani nell’anniversario della disfatta di St. Clair. Gli Indiani catturarono due prigionieri ed inoltre appresero che un grosso convoglio di cavalli da soma era partito per Fort Jefferson e sarebbe tornato dopo pochi giorni. Piccola Tartaruga si diresse a nord e trovò il convoglio, composto da 100 uomini della milizia del Kentucky al comando del maggiore John Adair e da circa 100 cavalli, accampato appena fuori di Fort St. Clair. Gli Indiani attaccarono all’alba, proprio quando il maggiore Adair aveva fatto rientrare le sentinelle. La milizia riuscì ad organizzare la ritirata verso il forte, avendo sei uomini uccisi e quattro dispersi, mentre altri cinque restarono feriti. Più tardi il maggiore Adair criticò il comandante del forte, capitano Bradley, per il mancato aiuto alla milizia. Piccola Tartaruga perse due guerrieri, ma conquistò l’accampamento con tutti i rifornimenti. Tutti i cavalli furono uccisi, feriti o fuggirono; solo 23 vennero ritrovati più tardi. Wilkinson pensava che la perdita dei cavalli avrebbe reso indifendibili gli avamposti dell’esercito.
Gli Americani reagirono alle richieste del Gran Consiglio con indignazione, ma Henry Knox, Ministro della Guerra, stabilì che si sarebbero inviati rappresentanti alla riunione del 1793 e di sospendere fino a quel momento tutte le operazioni di guerra. Quando si tenne l’incontro del fiume Sandusky, scoppiarono disaccordi fra Shawnee e Delaware, da una parte, e le Sei Nazioni dall’altra. I primi insistevano sul fatto che gli Stati Uniti dovevano riconoscere il trattato di Fort Stanwix del 1768 tra le Sei Nazioni e la Gran Bretagna, che stabiliva come confine il fiume Ohio. Joseph Brant, eminente capo Mohawk, replicava che le Sei Nazioni non avevano nulla da guadagnare da questa richiesta e si rifiutò di aderire. Molti dei partecipanti al consiglio dubitavano che gli inviati americani non avessero nemmeno l’autorità di negoziare questi punti. Ulteriori disaccordi si verificarono a proposito dell’influenza di Alexander McKee e sulle traduzioni fatte da Simon Girty. La commissione americana giunse alla conclusione che sarebbe stato troppo oneroso rimuovere i coloni bianchi che si erano già stabiliti a nord del fiume Ohio. Il 13 agosto il consiglio (con l’eccezione delle Sei Nazioni) mandò agli inviati americani una dichiarazione che contestava le rivendicazioni degli Stati Uniti su qualunque territorio posto a nord dell’Ohio, poiché le stesse erano basate su trattati stipulati con nazioni che non vivevano in quei luoghi e con denaro che non aveva alcun valore per le tribù native. Il consiglio propose che gli Stati Uniti riallocassero i coloni usando il denaro che sarebbe dovuto servire per comprare le terre dell’Ohio e per pagare la Legione Americana. L’incontro terminò con discordie all’interno della confederazione indiana, mentre gli inviati di Washington scrivevano a Henry Knox che avevano fallito nell’assicurare la pace nel Nord Ovest.
Fort Recovery
“Un’altra sconfitta sarebbe rovinosa per la reputazione degli Stati Uniti”, aveva detto il presidente Washington. Con queste parole in testa, il generale Wayne decise un duro addestramento per le sue truppe, radunate a Legionville, a sud di Pittsburg. Fanteria, artiglieria e cavalleria vennero impegnate in esercitazioni mirate, all’arma bianca e nei vari schieramenti di battaglia. Nella primavera del 1793 si mosse da Fort Washington a Cincinnati. L’8 agosto marciò verso nord, con duemila uomini di truppa, per invadere le terre dei Miami. Nel frattempo c’erano stati scontri, con i guerrieri di Piccola Tartaruga che non davano il minimo segnale di pausa. Un messaggio degli Inglesi aveva comunicato che la guerra con gli Stati Uniti era stabilita per l’anno in corso e ci si aspettava che gli Indiani difendessero il loro paese. Ora il grande guerriero “Anthony il pazzo” stava avanzando, con guide appartenenti alle tribù Choctaw e Chickasaw.
Gli Indiani lo rispettavano molto, la sua reputazione era nota. Lo avevano soprannominato “Serpente Nero”, “Grande Vento” o “Turbine di vento”. Per i sistemi adottati nel condurre le marce – uomini schierati in ordine aperto, dragoni in movimento sui fianchi, le guide davanti, l’accampamento notturno allestito presto la sera e circondato da una fortificazione di pali – essi vedevano che era saggio. Edificò nuovi forti, tra i quali uno vicino a Fort Jefferson a Greenville, in Ohio, dove passò l’inverno. Costruì Fort Recovery sul campo di battaglia dove il generale Saint Clair era stato messo in rotta. Con questo Wayne intendeva inviare un messaggio psicologico agli Indiani: l’esercito americano era tornato! Contrariamente a quanto verificatosi per i forti precedenti, intitolati a eroi di guerra, questo fu chiamato “Recovery” (ripresa, recupero). Gli Indiani pensavano che il forte fosse troppo ben difeso per un assalto diretto, così stabilirono di attaccare i convogli dei rifornimenti e le colonne di rinforzo diretti verso il forte. In pratica, volevano prendere la guarnigione per fame.
Il generale Anthony Wayne
Il 30 giugno 1794, 1500 guerrieri Shawnee, Delaware, Ottawa, Miami e Ojibwa attaccarono un convoglio che da Fort Recovery tornava a Fort Greenville. L’assalto era guidato da Piccola Tartaruga, Blue Jacket e Simon Girty ed avvenne a meno di 300 metri da Fort Recovery. Dei 140 soldati americani che scortavano il convoglio, gli Indiani ne uccisero o ferirono 15, oltre a razziare trecento cavalli. I guerrieri indiani caduti nella battaglia furono tre. Subito dopo questo attacco, gli Indiani, incoraggiati dalla vittoria, lanciarono un attacco notturno contro Fort Recovery. I 250 soldati che occupavano il forte riuscirono a respingere l’attacco, ma persero 22 uomini. Gli Indiani ebbero 40 morti e 20 feriti, e impiegarono due notti per portarli via dal campo. Gli Inglesi da Detroit avevano avanzato verso sud, costruendo un altro forte per le loro guarnigioni, Fort Maumee, a sud dell’odierna Toledo (Ohio nord-occidentale). Era un ottimo posto di raduno, per gli Indiani, e questo diede loro coraggio.
“Grande Vento” continuava a imperversare, distruggendo villaggi e campi. Egli costruì Fort Defiance proprio nel cuore del territorio dei Miami, e avanzò discendendo il fiume Maumee verso il forte inglese. Giunto a circa sette miglia dai Britannici, edificò Fort Deposit. Egli aveva duemila legionari e millecento fucilieri a cavallo del Kentucky; l’esercito di Piccola Tartaruga era respinto verso il forte inglese, non restava che combattere o ritirarsi. In quel momento Piccola Tartaruga perse suo cognato, William Wells, Serpente Nero, che era di sangue bianco e non poteva più a lungo combattere contro la sua stessa razza. William Wells si inoltrò nella foresta e trovò il generale Wayne. Wells divenne poi una valorosa guida dell’armata degli Stati Uniti.
Fallen Timbers
Da Fort Deposit il generale Wayne fece sapere ai Miami che potevano stipulare la pace immediatamente o essere attaccati. Piccola Tartaruga convocò un consiglio. Molti dei suoi uomini erano dubbiosi. Lo stesso Piccola Tartaruga aveva dei dubbi. Il consiglio dibatté se tentare un’altra imboscata come quella di Saint Clair o attendere gli sviluppi. Blue Jacket, il capo Shawnee, era del parere di combattere. Piccola Tartaruga replicò con il seguente discorso: “Ascoltate: noi abbiamo battuto il nemico due volte, con due generali diversi. Non possiamo aspettarci di avere sempre la stessa buona fortuna. Gli Americani adesso sono guidati da un capo che non dorme mai. La notte e il giorno sono la stessa cosa per lui. Per tutto il tempo in cui lui ha marciato contro di noi, lo abbiamo controllato da vicino, ma non siamo mai stati capaci di coglierlo alla sprovvista. Pensateci bene. Qualcosa mi sussurra all’orecchio che noi faremmo bene a trattare con lui.” Alla fine qualcuno accusò Piccola Tartaruga di aver paura. Era troppo. Egli non obiettò più nulla e il consiglio decise di allestire la formazione da battaglia ed attendere a Presq’Isle, nelle vicinanze del forte inglese. Blue Jacket prese il comando. Il terreno si prestava molto bene alla difesa. Un “grande vento”, diverso dal loro nemico bianco, era passato attraverso la foresta e aveva lasciato gli alberi caduti in un caos di tronchi incrociati gli uni sugli altri, e gli Indiani speravano che questo avrebbe ostacolato l’avanzata di Wayne. In mezzo a questo labirinto Piccola Tartaruga, Blue Jacket, Simon Girty e gli altri capi appostarono tre linee di guerrieri e di mezzo-sangue, su di un fronte lungo due miglia. Alla loro sinistra avevano il fiume, la destra era protetta da un boschetto e avevano alle spalle il forte inglese. I guerrieri indiani, che ammontavano a circa 1500, erano Shawnee, guidati da Blue Jacket; Delaware, con a capo Buckongahelas; Miami, con Piccola Tartaruga; Wyandot, condotti da Testa Rotonda; ed inoltre Ojibwa, Ottawa, Potawatomi, Mingo, più una compagnia di Canadesi della milizia comandati dal capitano Alexander McKillop.
Il comandante inglese aveva affermato che avrebbe aperto le porte del forte, se gli Indiani fossero stati di nuovo respinti.
Blue Jacket parla in consiglio
Il “Grande Vento”, che non dormiva mai, non era rimasto indietro: la mattina del 20 agosto 1794 marciò in avanti, in formazione di battaglia. A mezzogiorno si abbatté su Fallen Timbers (Tronchi Caduti), a Presq’Isle. Wayne mandò i fucilieri a cavallo del Kentucky contro il fianco sinistro dello schieramento indiano; i dragoni dell’esercito regolare contro il fianco destro; La fanteria diritta verso il centro con una carica alla baionetta. L’ordine era di non sparare un colpo finché le linee degli Indiani non fossero state spezzate; a quel punto si doveva sparare una raffica di colpi e attaccare con un tale impeto che il nemico non avrebbe avuto il tempo di ricaricare. Per una volta, i guerrieri di Piccola Tartaruga non si opposero al nemico. Erano spaventati dal generale pazzo. La ben addestrata fanteria dei Legionari avanzò così velocemente da sorpassare la cavalleria; riuscì da sola a respingere i guerrieri in gran scompiglio attraverso i trochi abbattuti verso le mura di Fort Miami. Gli Indiani indietreggiarono fino al forte inglese, ma con grande sconforto trovarono le porte chiuse. Il maggiore William Campbell, comandante di Fort Miami, rifiutò di aiutarli, non volendo rischiare una guerra con gli Stati Uniti. Quindi i fucilieri a cavallo e i dragoni fecero una strage con i loro “lunghi coltelli”. La battaglia di Fallen Timbers era durata un’ora circa. L’armata di Wayne aveva riportato 33 morti e circa 100 feriti, mentre pare che i guerrieri indiani caduti fossero centinaia. Fra i caduti anche nove capi Wyandot. I soldati impiegarono parecchi giorni per distruggere i villaggi nativi e i campi coltivati nelle vicinanze, poi si ritirarono.
I guerrieri si erano dispersi, gli Inglesi non li avevano aiutati, i forti degli Stati Uniti avrebbero ora occupato i loro migliori territori compresi fra la riva destra dell’Ohio e il lago Erie. La lunga guerra si era conclusa.
Nell’agosto 1795 i Miami e undici altre nazioni native firmarono un trattato di pace, a Greenville. Lo stesso venne ratificato dal presidente Washington il 22 dicembre 1795. Le tribù indiane del Nord Ovest erano state costrette a cedere la maggior parte dell’Ohio e una porzione dell’Illinois; a riconoscere gli Stati Uniti, piuttosto che la Gran Bretagna, come potenza dominante della regione; e a consegnare dieci capi come ostaggi finché non fossero stati restituiti tutti gli Americani prigionieri.
Disse Piccola Tartaruga: “Io sono l’ultimo a firmare il trattato e penso che sarò l’ultimo a infrangerlo.” Dopo di che Piccola Tartaruga visse in pace con gli Americani, i quali gli costruirono una casa nel suo luogo di nascita sul fiume Eel, a venti miglia dal Forte Wayne, nell’Indiana. Egli tentò di adottare la civilizzazione dei bianchi, favorendo fra il suo popolo l’agricoltura. Venne avversato da capi gelosi, che invidiavano la sua casa e lo accusavano di essersi venduto agli Americani. Ma era un uomo saggio. Era stato il primo dei grandi capi ad opporsi alla tortura dei prigionieri; adesso avversava gli alcolici. Si presentò, assieme al suo amico, capitano William Wells, davanti al parlamento del Kentucky, per chiedere una legge che impedisse di vendere liquori agli Indiani. Nell’inverno 1801-1802 andò a Washington a farsi vaccinare, e portò indietro delle dosi di vaccino per il suo popolo. Piccola Tartaruga morì il 14 luglio 1812, mentre era in visita a Fort Wayne. La notizia venne così riportata su un quotidiano: “Probabilmente non c’è rimasto, in questo continente, uno della sua razza così illustre sia in consiglio che in guerra. Era malato di gotta. E’ morto su un campo, perché aveva scelto di stare all’aria aperta. Ha incontrato la morte con grande fermezza. L’agente per gli affari indiani lo ha sepolto con gli onori di guerra.”
Il suo ritratto, dipinto da un celebre artista, venne appeso sui muri del Dipartimento della Guerra, a Washington.
La battaglia di Fallen Timbers ebbe conseguenze che si rifletterono fino all’Europa. La notizia della vittoria americana fu di notevole supporto al negoziatore John Jay per assicurare un trattato (Trattato di Jay) con la Gran Bretagna, la quale promise il ritiro inglese dai forti di frontiera – lasciando tutta la zona agli Americani; inoltre aprì i possedimenti inglesi dei Caraibi al commercio americano.
Un’immagine della battaglia di Fallen Timbers/em>
La vittoria liberò i coloni dalla paura delle incursioni indiane e assicurò la fedeltà del territorio agli Stati Uniti. In una prospettiva a lungo termine, la battaglia di Fallen Timbers consentì agli Americani l’accesso alla zona occidentale dei Grandi Laghi e alla parte ovest della Valle dell’Ohio, consentendo ai coltivatori della zona la possibilità di fare affluire i loro prodotti sui mercati internazionali.
Anthony Wayne, dopo il ritiro dalla zona di guerra, edificò una linea di forti che andava dalla foce del fiume Maumee sul lago Erie (presso l’attuale Toledo, in Ohio) fino alla sorgente, nell’Indiana. Il forte qui costruito, l’ultimo, venne battezzato Fort Wayne in suo onore, dopo che egli si era già ritirato nel suo paese natio, in Pennsylvania. Dietro questa linea di forti i coloni si sparsero in tutto il paese, portando all’annessione dello stato dell’Ohio nel 1803.
Tecumseh, un giovane e valoroso guerriero Shawnee che aveva combattuto a Fallen Timbers e aveva rifiutato di firmare il Trattato di Greenville, avrebbe rinnovato la resistenza dei Nativi negli anni a venire.