Levi Boone Helm, il “Cannibale del Kentucky”
A cura di Gian Mario Mollar
Levi Boone Helm
Se, idealmente, potessimo indire un concorso e radunare in un’unica, grande sagra tutti i banditi, tagliagole e desperados che hanno insanguinato la storia della Frontiera, è probabile, che, senza troppe discussioni e con un certo timore reverenziale, tutti si farebbero da parte per lasciare salire sul podio Boone Helm.
La storia del “Cannibale del Kentucky”, infatti, gronda così tanto sangue da farci rabbrividire ancora oggi e, al contempo, è pervasa da una certa perversa epicità. Levi Boone Helm nacque il 28 gennaio del 1828 in Kentucky, in una numerosa famiglia di onesti e rispettati pionieri. Quando era ancora ragazzo, i genitori, con i suoi dodici fratelli, si trasferirono nel vicino stato del Missouri. Temprato dalla vita all’aria aperta e dalle fatiche nei campi, il giovane Helm crebbe forte, selvaggio e con una notevole inclinazione al teppismo e alla ribellione.
Una delle bravate per cui divenne famoso era quella di lanciare, conficcandolo a terra, il suo coltello Bowie e poi raccoglierlo su un cavallo al galoppo, senza scendere di sella. In un’altra occasione, mentre aveva uno sceriffo alle calcagna che voleva arrestarlo per qualche rissa, entrò a cavallo dentro al tribunale, nel bel mezzo di un processo. Non pago dello scompiglio creato, pensò bene di apostrofare il giudice per consigliargli di lasciarlo in pace, sottolineando il concetto con una buona dose di oscenità. Il disprezzo per l’ordine costituito, così come la disinvoltura in situazioni estreme, lo accompagneranno per il resto della sua breve e tumultuosa esistenza.
Nel 1848, a vent’anni, si sposò con la diciassettenne Lucinda Browning, ma le gioie della vita coniugale non si attagliavano molto al suo stile. La routine della famiglia Helm prevedeva grandi bevute quotidiane con conseguenti sevizie alla povera moglie; di tanto in tanto i vicini vedevano Boone ubriaco aggirarsi a cavallo dentro casa. Lucinda diede alla luce una bambina e, poco dopo, incoraggiata dai genitori, chiese e ottenne il divorzio.
La copertina di un libro su Boone Helm
Due anni dopo, nel 1850, Boone, come tanti altri, venne contagiato dalla febbre dell’oro, e decise di unirsi ai cosiddetti Forty Niners, Quelli del ’49, i tanti cercatori d’oro che affollarono i fiumi e i monti della California alla ricerca di pagliuzze e pepite d’oro. Per non partire solo, cercò di convincere il cugino, Littlebury Shoot, a seguirlo nel suo viaggio. Questi, in un primo tempo, si dimostrò interessato al progetto, ma, quando la partenza era ormai vicina, ebbe un ripensamento: lo sapevano tutti che Helm era pazzo e imprevedibile, e forse era meglio evitare di imbarcarsi in un’impresa del genere con uno come lui.
Quando Shoot gli disse che preferiva restare in Missouri, Boone non la prese bene. In uno scatto di rabbia, affondò il suo Bowie nel petto del cugino e lo uccise. Era il primo omicidio di Boone, ma a breve ne sarebbero seguiti molti altri, così tanti che nessuno, se non forse lui, è mai stato di stabilirne il numero esatto.
Gli amici e il fratello della vittima riuscirono a catturare l’assassino e a farlo arrestare, ma le intemperanze di Boone nel sistema carcerario lo portarono ben presto a venire internato in un manicomio, un ricovero per alcolizzati e “lunatici”. Come dichiarò la Corte: “il suo comportamento non era semplicemente disdicevole, ma del tutto squilibrato”. Tra le pareti imbottite, Boone parve calmarsi, divenne taciturno e tranquillo. Facendo leva sui benefici della vita all’aria aperta, riuscì a convincere uno dei suoi guardiani a portarlo a fare delle passeggiate nei dintorni della struttura. Ma era soltanto una messinscena: nel corso di una di queste uscite, riuscì a tramortire il suo piantone e sparì nei boschi.
Boone Helm si diresse a ovest, per raggiungere la California e i campi minerari. Non è dato sapere con esattezza quanti uomini abbia ucciso lungo il tragitto, ma furono in molti a cadere sotto il suo coltello o davanti alla sua pistola, a volte nel corso di risse da saloon, altre volte con premeditazione. Più si avvicinava alla Frontiera, più la sua fama di attaccabrighe, assassino e uomo pericoloso e instabile si andò accrescendo, arricchendosi di aneddoti e di vittime.
Si dice che una sera, unitosi a un gruppo di cercatori d’oro che stavano bivaccando, Boone si sentisse in vena di confidenze. Con noncuranza, dichiarò: “Sono parecchi i poveri diavoli che ho ammazzato, in questa o in quell’occasione… e ci sono state volte in cui sono stato costretto a nutrirmi di qualcuno di loro”. Possiamo soltanto immaginare il gelo sceso tra i suoi commensali: anche se si trattava di duri uomini di frontiera, le vampe del falò non bastavano più a riscaldarli.
La carovana Donner Party, un altro esempio di cannibalismo
Il cannibalismo è una vena oscura che pervade la storia della conquista del West. Sebbene inizialmente lo considerassero appannaggio esclusivo dei “selvaggi senza Dio” che abitavano quelle terre inesplorate, ben presto anche i bianchi dovettero confrontarsi con l’orrore di questo atavico tabù, che ripugna e affascina al tempo stesso.
Un fatto che turbò l’opinione pubblica e che segna questo cambiamento di prospettiva è senz’altro la tragica epopea della Carovana Donner. Tra il 1846 e il 1847, un gruppo di 81 coloni, la metà dei quali erano bambini o ragazzi, partiti dall’Illinois per cercare una vita migliore sotto il sole della California, fu sorpreso dall’inverno sulla Sierra Nevada. Bloccati dalla neve, i carri non potevano proseguire e i coloni dovettero accamparsi nell’attesa dei soccorsi. Dopo aver terminato le scorte di cibo e la carne degli animali domestici, i partecipanti furono costretti a cibarsi dei corpi dei compagni morti di stenti per sopravvivere. Qualcuno arrivò a uccidere altri membri, con lo scopo di sfamarsi. Nel confrontarsi con una natura spietata, anche gli uomini “civilizzati” dovettero abbassarsi ai più brutali istinti di sopravvivenza.
Non si trattò di un caso isolato, la storia del West ricorda altri cannibali famosi, quali Mangiafegato Johnson, efferato sterminatore di Crow, le cui gesta, amplificate e deformate dai racconti di frontiera, vengono spesso confuse con quelle compiute da Helm, oppure Alferd Packer, esploratore minerario che nel 1874, tra le nevi dei monti del Colorado, probabilmente uccise e sicuramente mangiò cinque dei suoi compagni.
Il cannibalismo di Boone Helm, tuttavia, ha un carattere diverso, ancora più inquietante, se possibile: non viene vissuto con senso di colpa o ribrezzo, ma dichiarato apertamente, ostentato con fierezza. Non solo: mentre, nella gran parte dei casi, il nutrirsi di carne umana è un’extrema ratio per sopravvivere, un disperato tentativo di non soccombere, Boone Helm ne fa invece un mezzo metodico di sostentamento. Per il Cannibale del Kentucky, la carne umana era un cibo come un altro, senza barriere morali che ne inibissero il consumo.
Fort Hall nel 1845
La California dei Forty Niners era un posto per duri, in cui il tempo si divideva equamente tra la sfibrante ricerca del metallo giallo e la bisboccia nei saloon. Risse, duelli e morti ammazzati erano all’ordine del giorno. Fin da subito, Boone Helm preferì il whiskey e le risse al setaccio e alla vanga. Furono in molti a farne le spese, ma anche qui non è possibile circoscrivere i morti con un numero. Alla lunga, però, la legge e, forse, il desiderio di vendetta dei minatori lo costrinsero a cambiare aria.
Da minatore, si trasformò in trapper e scomparve tra i monti, dove riuscì a far perdere le sue tracce fino al 1853, quando ricomparve molto più a nord, nella cittadina di Dalles, in Oregon, dove riunì una mezza dozzina di disperati per attraversare le Montagne Rocciose e dirigersi verso Fort Hall, nell’Idaho, e di lì scendere nello Utah, a Camp Floyed, non lontano da Salt Lake City.
I sei vennero sorpresi dall’inverno proprio nel mezzo delle Montagne Rocciose, un territorio impervio e inospitale.
Viaggiavano a cavallo, senza carri, e quindi non potevano trasportare molte provviste. Sulle sponde del fiume Raft vennero attaccati da un gruppo di nativi Maduan – chiamati in genere “Digger Indians”, indiani scavatori, a causa della loro abitudine di nutrirsi di radici commestibili. Vennero inseguiti e risposero al fuoco per diversi chilometri, senza subire perdite.
Raggiunto il fiume Bannack, decisero di accamparsi. Legarono i cavalli e due di loro rimasero di guardia ma, nel corso della nottata, subirono un’incursione da parte degli indiani: una sentinella fu uccisa e un cavallo rubato.
Con difficoltà raggiunsero una capanna abbandonata sul fiume Bear: si trattava, probabilmente, del rifugio invernale di qualche trapper. Una volta consumate le poche provviste, iniziarono a nutrirsi dei cavalli, uccidendoli uno alla volta. Quando anche la carne dei cavalli stava per finire, costruirono delle racchette da neve con le loro pelli e si incamminarono verso Fort Hall.
La marcia nella neve era dura e la denutrizione contribuiva a renderla ancora più difficile: il gruppo, inizialmente compatto, iniziò a sfaldarsi. Il fisico temprato di Helm non risentiva troppo delle intemperie e così, insieme a un altro compagno di nome Burton, decise di abbandonare gli altri al loro destino.
Una zona paludosa
Alla lunga, tuttavia, anche Burton venne sopraffatto dalla fatica. Accecato dal biancore della neve, spossato dal freddo e dalla fame, non ce la fece più a proseguire. Helm lasciò indietro anche lui per raggiungere il forte, ma all’arrivo lo attendeva una brutta sorpresa: l’avamposto era deserto. Decise così di ritornare da Burton, ma lo trovò morto: prima del suo arrivo, aveva posto fine alle sue sofferenze sparandosi in testa.
Questa, ovviamente, è soltanto la versione di Helm: è altrettanto probabile che il pluriomicida abbia deciso contribuire personalmente al trapasso del compagno. Quello che è certo, per sua stessa ammissione, è che Helm Boone si nutrì di Burton. Mangiò una gamba subito e portò con sé la seconda, dopo averla amputata all’altezza del bacino e averla avvolta nella camicia del morto.
Con queste macabre provviste, il cannibale decise di tentare il tutto per tutto e di raggiungere Salt Lake City. Venne salvato dall’incontro fortuito con John Wesley Powell. Era il 1859, di lì a poco Powell si sarebbe arruolato come maggiore nell’esercito dell’Unione per combattere nella Guerra Civile, ma sarebbe poi passato alla storia come geologo ed esploratore del fiume Colorado. La sua affascinante storia è raccontata in un bel film prodotto da Walt Disney, “Dieci uomini coraggiosi”, del 1960.
La vita di questo esploratore non fu certo parca di esperienze e avventure, ma l’incontro con Boone lo impressionò. Ne troviamo traccia in uno dei suoi diari: “…avevo attraversato il fiume Snake, proprio sopra Fort Hall, e avevo piazzato la mia tenda per schiacciare un pisolino, quando sentii qualcuno urlare con voce possente: “Di chi è questa baracca?”. Guardai fuori dall’entrata e vidi un uomo alto, cadaverico, con gli occhi infossati, che mi sovrastava. Era avvolto in un giaccone sporco e stracciato, in camicia e mutandoni e i suoi mocassini erano così consumati che a malapena gli stavano attaccati ai piedi”.
Powell soccorse il redivivo e lo nutrì. Questi gli raccontò le sue traversie e il futuro esploratore scoprì anche che aveva con sé una borsa contenente più di mille dollari in monete, dalla quale non si era separato nel corso di tutti i tragici eventi e che, forse, aveva in parte rubato ai compagni caduti. Il fuggiasco non dimostrò troppa gratitudine al suo salvatore: una volta raggiunto l’Utah, la terra dei Mormoni, sparì senza nemmeno ringraziarlo. Tutto sommato, per Powell fu meglio così: in altri casi, Helm arrivò a uccidere quelli che si erano presi cura di lui.
A Salt Lake City, Boone Helm riprese lo stile di vita che tanto amava, fatto di bevute, gioco d’azzardo e spese sconsiderate. Dilapidato il bottino, Boone lavorò come sicario per i Mormoni, uccidendo un paio di persone dietro compenso. La situazione si fece presto scomoda, e l’assassino dovette abbandonare la città.
Levi Boone Helm
Passò qualche tempo nei saloon della California, sopravvivendo grazie a furti e rapine. Giunse poi a San Francisco, ma non ci sono molte testimonianze relative a questa fase della sua vita. Da San Francisco, sempre costeggiando il Pacifico, fece ritorno in Oregon, raggiungendo la cittadina mineraria di Florence nel 1862.
Qui, forse istigato mentre era ubriaco, o forse su commissione, uccise un uomo a tradimento, in pubblico. Si trattava di Dutch Fred, un uomo conosciuto in città come pistolero. Boone gli sparò mentre questi era disarmato, senza che lo avesse neanche provocato. Il primo colpo andò a vuoto, ma Boone prese meglio la mira e lo freddò con il secondo. In seguito a un atto così eclatante anche per una città violenta di minatori, fu arrestato e venne istruito un processo, che però si concluse con il suo rilascio in seguito alla scomparsa di tutti i testimoni. Forse, i cittadini di Florence avevano paura di deporre contro un uomo così terribile, temendo ritorsioni, oppure, secondo altre fonti, fu uno dei fratelli di Boone, un certo Old Tex, a salvarlo, corrompendo i testi.?Boone poté così ritornare alla libertà e alla sua vita violenta ma la fama di cannibale e assassino lo precedeva ovunque andasse.
Grazie a un trafiletto apparso sul giornale The Colonist del 4 aprile 1864, riusciamo a localizzarlo nel distretto del Cariboo, in Canada. Nel luglio di quell’anno arrivò ad Antler Creek, nella terra bellissima e selvaggia ai piedi delle Montagne Rocciose Canadesi.
Nei dintorni di una ghost town mineraria chiamata Quesnelle Forks, Boone e Dirty Harris, un suo nuovo compare, uccisero e derubarono tre cercatori minerari. Sokolosky, questo il nome di uno dei tre, e gli altri due compagni di origine francese erano accompagnati da due cavalli e un mulo che trasportavano circa trentaduemila dollari in oro grezzo. La rapina fu preceduta da uno scontro a fuoco: le pistole dei tre morti, infatti, avevano i tamburi vuoti, e ognuno di loro aveva una pallottola nel cranio.
I giornali dell’epoca riferiscono la testimonianza di un certo Andrew Browning, che racconta: “il sentiero che porta dal monte a Quesnelle Forks è lungo un miglio. Mentre mi avvicinavo, vidi sulla strada una processione di persone che trasportavano tre barelle. Quando li raggiunsi, scoprii che trasportavano tre morti. Li avevano trovati sulla strada che viene da Cariboo, derubati e uccisi […]. Chi era l’assassino, o chi erano gli assassini? Tutti sussurravano che si trattasse di Boone Helm, un giocatore d’azzardo e tagliagole che era sfuggito al Comitato di Vigilanza di San Francisco”.?Quel giorno anche W. T. Collison, un altro minatore, si trovava a Quesnelle Forks. Egli aveva incontrato le tre vittime, qualche giorno prima, e, nel lasciare la città, si imbatté anche in Boone e nel suo complice: “la prima cosa che sentii fu: “Alzate le mani!” e, guardando in alto, vidi le canne di una doppietta puntate a un paio di metri dalla mia testa. Il suo pard ci mise circa cinque minuti a tagliare le cinghie delle mie borse, dopo avermi sfilato la sei colpi e il portafoglio, che conteneva tre dollari messicani e tre scellini inglesi. Dentro a una delle mie camicie sporche c’era un bel gruzzolo, ma una piccola borsa piena di pallottole attirò la loro attenzione e salvò il mio oro, che, essendo chiuso nel taschino della camicia, non venne notato. Mi svuotarono la pistola, e mi dissero di andarmene senza guardarmi indietro. Dato che la strada era in discesa, non persi tempo”. Secondo la ricostruzione di Collins, è probabile che Boone e Harris avessero sotterrato nei dintorni il bottino.
Un altro articolo di giornale, tratto dal The Victoria Colonist del 13 Ottobre 1862, ci informa che: “Boone Helm, noto per essere un personaggio pericoloso, è stato arrestato ieri sera dal Sergente Blake”. Anche in quest’occasione, tuttavia, i testimoni esitavano a farsi vivi. L’unico a deporre fu il proprietario dell’Adelphi Saloon, che raccontò che Boone era venuto a sbronzarsi nel suo locale. Giunto il momento di pagare, l’assassino guardò negli occhi il barman e disse: “Non lo sai che sono un disperato?”.
Stranamente, nessuno collegò Helm alla rapina di Quesnelle Forks. Grazie alla carenza di testimonianze, Mr. Bishop, l’avvocato difensore, ebbe buon gioco a sostenere che la fama negativa di Boone fosse semplicemente frutto di pregiudizi infondati: dopo un solo mese di carcere, Boone era di nuovo a piede libero.
Fu arrestato nuovamente in Canada nel 1863, a Fort Yale, nel Fraser Canyon. Le guardie del forte lo trovarono stremato dalla fatica e dalla fame: scappava da giorni, probabilmente braccato per qualche omicidio commesso in quelle terre dimenticate da Dio. Quando gli chiesero che fine avesse fatto il suo compare Dirty Harris, Boone rispose senza scomporsi: “Cosa? Pensi che sia così fesso da crepare di fame se posso farne a meno? Me lo sono mangiato, ovviamente!”. In seguito a questa candida confessione, e ad altre imputazioni raccolte, il prigioniero fu affidato alle autorità statunitensi e deportato a Port Townsend, nello stato di Washington.
Non per molto, tuttavia, in quanto ancora una volta Helm riuscì ad evadere la sorveglianza e a sparire tra le colline.
Henry Plummer
Ricomparve a Bannack, che ai tempi era nel territorio dell’Idaho, mentre oggi fa parte del Montana. All’epoca, in città imperava Henry Plummer, che era al contempo sceriffo e capo di un gruppo criminale, la famosa “banda degli innocenti”: fingendo di amministrare la giustizia, lo sceriffo, in realtà, proteggeva i suoi complici e a finire sulla forca erano i testimoni scomodi.
Per molti versi, Plummer era l’antitesi di Boone Helm: se quest’ultimo era brutale, impulsivo e feroce, il primo era educato, raffinato e freddo calcolatore, una sorta di “bandito gentiluomo” che riscuoteva anche un certo successo con il gentil sesso. C’era qualcosa, comunque, che li accomunava: la spietatezza e la prontezza nell’uccidere. Nell’ultima parte della sua vita, Boone si unì a questa banda di criminali, continuando a mietere vite umane.
A quei tempi, Bannack era una città sperduta nel nulla e il sodalizio si protrasse per qualche tempo. Alla fine, però, gli onesti cittadini di Bannack e Virginia City, indignati dal proliferare delle ingiustizie, istituirono un corpo di Vigilantes per contrastare gli uomini di Henry Plummer.
Furono tre di questi ad arrestare Boone Helm, sorprendendolo in mezzo alla strada. “Se avessi avuto una possibilità” dichiarò in seguito, “o se avessi intuito quello che volevate fare, non mi avreste mai preso”.
Portato in tribunale, dichiarò di non conoscere le ragioni del suo arresto, tesi che sostenne anche giurando sulla Bibbia, senza batter ciglio. Vedendo che la giuria non sembrava convinta, cambiò strategia, accusando i suoi colleghi di averlo traviato e corrotto.
Virginia City
Jack Gallager, anch’egli tra gli arrestati, si indignò per quella sfacciataggine, lo insultò e gli disse che doveva morire. La risposta del cannibale fu laconica: “Ho guardato la morte in tutte le sue forme. Non ho paura di morire”.
A volte, quando si avvicina l’ora ultima e il momento del giudizio, anche i peggiori criminali vacillano. Boone Helm, invece, preferì andarsene con un certo stile.
L’esecuzione ebbe luogo a Virginia City il 13 gennaio del 1864. La forca venne allestita su un edificio in costruzione, il cui architrave centrale servì per appendere i cappi. Il pubblico era impressionante: pare ci fossero più di seimila persone.
Il cannibale rifiutò i conforti della religione, ma i suoi colleghi preferirono confessarsi. Boone non sembrava preoccuparsi per l’impiccagione, ma il ritardo lo irritò. “Perdio, se volete impiccarmi, voglio che la facciate finita” disse, e continuò deridendo il suo compagno di capestro: “Smettila di fare tutto questo casino. Non serve a niente aver paura di morire”.
Boone fu l’ultimo a compiere il grande salto. Prima di lui pendettero dalla forca altri uomini della banda degli innocenti, tra cui Frank Parish, George Lane e Jack Gallager. Quando vide quest’ultimo morire, l’irriducibile esclamò: “Scalcia pure, vecchio mio! Il prossimo sono io. Sarò all’inferno con te tra un minuto!”
Un’impiccagione
La lapide del cannibale del Kentucky
Le sue ultime parole furono per la causa dei Confederati: “Ogni uomo ha i suoi principi. Urrà per Jeff Davis! Andiamo!” Con questo urlo, saltò dalla cassa che lo sorreggeva e lasciò questo mondo, una valle che aveva contribuito a irrigare con molte lacrime.