La questione indiana (“L’unico indiano buono…”)
A cura di Rino Albertarelli
Il detto che intitola questa rapida scorsa della questione indiana negli Stati Uniti (dalle origini alla strage di Ash Hollow) è stato attribuito gratuitamente al generale Philip Sheridan.
Certo gli somiglia nella grinta, ma quando il terribile “Piccolo Phil” cominciò a far soffrire i nativi, questa frase era già nota sulla Frontiera; forse risaliva addirittura ai Puritani nel XVII Secolo, perché tra questi e gli indiani era stato odio quasi a prima vista. Gli Stati Uniti avevano ereditato il problema indiano dai governi coloniali.
In che consisteva? Molto semplice: gli indiani esistevano e non si sapeva cosa farne.
Per gli spagnoli e I francesi essi avevano rappresentato una ricchezza viva: quella della forza lavoro, che sarebbe stato sciocco non utilizzare o distruggere.
La colonizzazione inglese, viceversa, fu impostata subito in modo da escluderli da qualunque partecipazione. Basato sull’agricoltura e sul commercio e con una disponibilità di braccia che aumentava anno dopo anno, il sistema coloniale anglosassone non sapeva che farsene dei nativi; né questi avevano la minima inclinazione al lavoro dei campi. Il mais che consumavano lo facevano coltivare dalle donne; erano cacciatori, gente dei boschi, liberi, fieri e mai avrebbero accettato di diventare braccianti agricoli salariati. La barriera culturale e la barriera razziale, sommate alle circostanze storiche, divisero fin dai primi anni della conquista bianchi e rossi, nelle colonie di Sua Maestà Britannica.
Dai rossi i bianchi volevano solo la terra. Da principio erano troppo pochi per prenderla con la forza, e inoltre avevano una mentalità legalitaria. La terra volevano comprarla (pagandola, naturalmente, il meno possibile) ed essere con le carte in regola. Le carte rappresentano la coscienza dei mercanti.
Subito in guerra
Il rum li aiutò a convincere i capi indiani che non capivano nulla di transazioni terriere e di proprietà immobiliare privata. Per i pellirosse la terra era come l’aria, come l’acqua: un dono del Grande Spirito che ne aveva creata abbastanza perché ogni popolo potesse prenderne quanta gliene occorreva.
Ma gli inglesi – che gli indiani chiamavano yankee, come i primi olandesi (janke) sbarcati nel Nord-Est – di terra ne volevano sempre di più per i nuovi che arrivavano dal mare, e gli indiani avevano cominciato a preoccuparsi, a nicchiare, a puntare i piedi. A forza di comprare, gli stranieri stavano buttando le tribù una a ridosso dell’altra e l’eccessiva vicinanza produceva attriti, litigi sempre più aspri, per non dire che la selvaggina diminuiva di anno in anno. Fatto ancor più grave per l’orgoglio di gente libera, gli yankee pretendevano che rispettassero le loro leggi, controllavano la loro condotta, li punivano al minimo sgarro e trattavano i capi come bambini deficienti. Era troppo. I Pequot si ribellarono e furono cancellati, come entità tribale, dalla faccia della terra. Poi fu la volta dei Wampanoag e anch’essi furono duramente castigati. Ma il primo di tutti a insorgere, in Virginia, nel 1662, era stato il capo Opechancanough, dei Powhatan. Sotto le asce dei suoi guerrieri erano caduti, in un solo giorno, trecentosettanta coloni. Senonché, il mare ne partoriva sempre di nuovi e nei due secoli successivi, il tallone della razza bianca era diventato ancor più pesante. Poi, i coloni s’erano liberati del “Padre” loro che stava di là del mare e avevano fatto la repubblica. Cosa significava per gli indiani? Poteva cambiare qualcosa?
Una convivenza complicata
Le repubbliche nascono sempre gravide di nobili ideali di giustizia e quella americana non fece eccezione. È vero che ignorò il problema degli schiavi di colore; ma mise in discussione quello indiano. Non C’era idea, allora, che la giovane Unione si sarebbe estesa fino al Pacifico. Terra ne aveva anche troppa, per le sue braccia, né la costituzione prevedeva accrescimenti territoriali. Thomas Jefferson dichiarava che il territorio nazionale sarebbe certo stato più che sufficiente per centinaia di generazioni d’americani; dunque il problema indiano si sarebbe potuto risolvere secondo critti di giustizia, soprattutto se gli indiani avessero collaborato, rinunciando alla vita nomade e dedicandosi solo all’agricoltura.
Thomas Jefferson
I fisiocrati erano convinti – e con buone ragioni – che l’agricoltura fosse la base stessa del benessere e del progresso. “Lasciate che l’Europa ci mandi i suoi prodotti industriali in cambio dei nostri prodotti agricoli”, dicevano. “L’Unione americana deve diventare una repubblica di piccoli proprietari terrieri, liberi da servitù, virtuosi come gli antichi romani e felici di produrre il necessario alla vita con il loro lavoro”. Non tutti, però, la pensavano allo stesso modo e alla lunga furono i contrari a prevalere.
Contro i Pequot
Per gli indiani, la repubblica votò in pochi anni tre provvedimenti. In primo luogo riservò al governo federale l’autorità di trattare nuovi acquisti territoriali dagli indiani. Poi, istituì le riserve e le factory. Avocando al governo centrale la facoltà di nuovi acquisti territoriali dagli indigeni, il legislatore poneva in essere una finzione legale: quella di considerare le tribù native alla stregua di potenze straniere incastonate nei confini nazionali. Con le riserve intendeva metterle a salvo dall’intrusione abusiva dei bianchi. Infine, con le factory mirava a sottrarre gli sprovveduti figli della Natura alla cupidigia senza scrupoli dei mercanti.
Le factory erano stabilimenti governativi collocati all’incrocio delle piste, dove gli indiani avrebbero potuto comprare dal governo, a prezzo di costo, i manufatti che essi non potevano produrre, in cambio delle loro pelli d’animali valutate ai prezzi di mercato.
Le factory risultarono la gamba debole del tripode, perché, commerciando con gli indiani, il governo si metteva in concorrenza con la libera iniziativa privata che era la base stessa dell’economia americana.
Thomas Hart Benton
I mercanti danneggiati sollevarono la questione costituzionale, strumentalizzando l’influenza del potente senatore del Missouri, Thomas Hart Benton, e non cessarono i loro attacchi finché, nel 1882, il governo non ebbe capitolato. Le factory furono abolite. C’è da dire che agli indiani non piacevano. Gli impiegati governativi addetti agli scambi non facevano quei piccoli doni che erano d’obbligo, nell’etica indigena, in ogni transazione commerciale; non partecipavano ai problemi dei loro fratelli rossi, restavano staccati, superbi. I mercanti, invece, non dimenticavano mai i regali, andavano spesso a vivere nei villaggi indiani della foresta, e se è vero che li imbrogliavano, è anche vero che sposavano le loro figlie, partecipavano alla vita della tribù e non facevano mai mancare il conforto del rum, benché il governo lo vietasse. Dunque, le relazioni umane trascurate fecero fallire il migliore dei tre progetti.
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