Barboncito e la lunga lotta dei Navajo
A cura di Sergio Mura
Barboncito
Anche se la storia ci consegna i Navajo come un magnifico popolo di agricoltori e pastori, essi seppero primeggiare anche nell’arte della guerra portata sia ai bianchi che ai vicini indiani. Barboncito (1820-1871), un guerriero e capo Navajo piuttosto famoso, è proprio la dimostrazione di come i Navajo sapevano far convivere il desiderio di pace e la capacità di combattere in maniera impeccabile. Barboncito era un Navajo che annoverava tra i propri avi persone del clan dei Jemez, gente del cuore della terra Navajo, gente del Canyon de Chelly, gente che aveva trovato rifugio in quelle magnifiche lande quando le cose per il clan erano andate storte in qualche episodio guerresco.
Il nome, Barboncito, non è certamente casuale e viene fatto risalire alla crescita di un po’ di peluria sul viso (“piccola barba”) laddove altri indiani avevano la massima cura di eliminare ogni pelo con dolorose operazioni di epilazione.
Barboncito era “l’uomo coi baffi” della gente Navajo, oppure Mr. Whiskers per i bianchi che ebbero modo di conoscerlo. Oppure, ancora, “He Who Runs Forward” (colui che corre avanti) nella lingua della sua gente.
Barboncito è generalmente descritto come persona serena e dai modi calmi e ponderati e questo gli era valsa una grande attenzione da parte dei bianchi che, molto opportunamente, puntavano ad avere come referente per ogni questione che riguardasse loro e gli indiani Navajo. In questo c’era comunque una buona porzione di verità perchè Barboncito era effettivamente uno dei tre Navajo più in vista del suo tempo e gli altri due erano Manuelito e Delgadito. E lo era sia da un punto di vista spirituale che sul versante della conduzione dei guerrieri in caso di battaglia.
Manuelito
I libri scritti sui Navajo indicano inequivocabilmente che Barboncito desiderava vivere in pace con gli altri indiani e con i bianchi. Sua è la firma, ad esempio, sul trattato del 1846, noto come “Doniphan Treaty”, con cui si impegna a restare in pace proprio coi bianchi dopo la disastrosa guerra tra Americani e Messicani.
Quel trattato, però, non tenne lontana la guerra che, anzi, infuriò negli anni successivi tra Navajo, Pueblo, Ute, Apache e abitanti del vicino New Mexico, al punto che i bianchi della zona, esasperati da quella conflittualità, richiesero a gran voce l’intervento dell’esercito che, neanche a dirlo, arrivò, generando un incremento della tensione.
E in quel clima Barboncito dimostrò di essere un ottimo guerriero e capo di guerra della sua gente. Da ricordare è l’attacco a Fort Defiance, seguito alla distruzione da parte dei soldati di una grande mandria di proprietà della gente di Manuelito. I due capi avevano un notevole seguito e riuscirono a schierare ben 2.000 guerrieri, ma non riuscirono a sfondare, cedendo sotto i colpi dei cannoni del forte.
Nonostante questo evitò di farsi trascinare nella pista della guerra a tutti i costi e preferì ricercare la pace, non riuscendo però a convincere il suo amico Manuelito.
La guerriglia proseguì a fasi alterne, finchè i soldati di Fort Defiance partirono tutti, lasciando credere ai Navajo che questo fatto fosse dipeso dalla loro aggressività. In realtà era appena scoppiata la Guerra Civile e l’esercito aveva necessità di tutta la propria forza altrove. In quell’occasione il New Mexico si divise in due stati perchè la parte occidentale preferì schierarsi con la Confederazione, scegliendo di chiamarsi Arizona.
La parte orientale si schierò con l’Unione e divenne un importante crocevia del passaggio dell’oro proveniente dai giacimenti californiani. Ma il trasporto del metallo prezioso era disturbato dai continui agguati dei Navajo e degli Apache e così venne deciso l’intervento del generale Carlton che ebbe l’incarico di spazzare via gli indiani. L’incarico non era di poco conto, né semplice e Carlton decise di chiedere l’aiuto di un vero esperto della vita di frontiera, Kit Carson.
A quel tempo Carson era una leggenda in tutto l’ovest americano per i suoi trascorsi di scout e agente indiano. Gli indiani lo rispettavano e lo chiamavano “Rope Thrower” (lanciatore di lazo), riconoscendogli anche quella capacità.
Kit Carson non mostrò intenzione di avere alcuna pietà per i Navajo e si dette da fare per radunare un piccolo esercito di trapper, scout e indiani di tribù rivali e con queste forze si mise in caccia con l’ordine di uccidere tutti i Navajo maschi, lasciando in vita esclusivamente donne e bambini.
Barboncito
La campagna militare gli diede ragione e si concluse con una durissima sconfitta dei guerrieri Navajo e con la decisione di effettuare la deportazione di tutta la tribù a Bosque Redondo, una località del New Mexico in cui erano confluiti anche parecchi Apache. La decisione fu infarcita delle solite frasi convincenti sulla presunta bontà del posto, ma i Navajo non mostrarono di crederci, affidando la loro risposta a Barboncito che si era ormai ricavato un posto di guida militare, ma anche civile del suo popolo.
E Barboncito non tardò a mostrare i muscoli, convinto com’era di poter resistere alle prepotenze dei bianchi. Disse che i suoi Navajo non si sarebbero spostati da dov’erano e, tanto per rendere ancor più chiare le sue intenzioni, prese ad attaccare i civili, i convogli di rifornimenti e anche alcuni piccoli distaccamenti di soldati.
Era la guerra!
Kit Carson prese nuovamente in mano la situazione, facendo ricostruire in brevissimo tempo Fort Defiance e ingiungendo agli indiani di raggiungerlo immediatamente per essere trasferiti a Bosque Redondo. L’ultimatum non venne neppure ascoltato e Carson decise di distruggere i famosi frutteti dei Navajo e di sottrargli con un colpo di mano tutte le greggi; a quel punto gli indiani si sarebbero certamente arresi, pensò lo scout, perchè senza cibo non avrebbero neppure potuto combattere.
I soldati percorsero la terra dei Navajo palmo a palmo, uccidendo ogni indiano e distruggendo ogni cosa sempre con la complicità di alcuni Ute e Zuni, tradizionali nemici delle genti Navajo.
Navajo prigionieri di Kit Carson
Barboncito e i suoi rimasero con Delgadito nel Canyon de Chelly, mentre altri gruppi si riunirono attorno a Manuelito che prese la via delle montagne a nord.
Nonostante l’arrivo dell’inverno e le molte difficoltà legate alla sopravvivenza, gli indiani seppero resistere ad alcuni attacchi e, dopo il fallimento di una loro proposta di trattativa, i guerrieri di Barboncito riuscirono a contrattaccare, sottraendo i muli al gruppo di soldati guidato da Carson e riuscendo così ad avere scorte di cibo per qualche tempo.
La fine delle ostilità arrivò comunque nel 1864, con la resa di Barboncito e di altri capi. Bosque Redondo (chiamato dai soldati Fort Sumner) accolse dei disperati Navajo che nulla volevano avere a che fare con quella che voleva essere una riserva modello sulle rive del fiume Pecos. Il progetto di Carleton era di convincere i Navajo a vivere tranquilli all’interno di un villaggio che però non era neppure stato costruito. Inoltre l’intera zona di Bosque Redondo ricadeva sotto l’influenza dei Comanche che ne rivendicavano il possesso e che attaccavano continuamente i Navajo rubandogli il bestiame ed i cavalli.
Una capanna di una famiglia Navajo
Per tre lunghissimi anni i Navajo subirono torti di ogni genere che andavano a sommarsi ai lutti legati alla guerra e alla deportazione, finchè non fu chiaro a tutti che si stava andando incontro alla catastrofe. Il governo americano aveva speso montagne di denaro che non avevano sortito alcun effetto benefico per gli indiani e non restava che ricercare una nuova soluzione. Della trattativa con Barboncito fu incaricato il generale Sherman che seppe ascoltare le drammatiche parole con cui il capo dei Navajo descrisse la triste esistenza a cui li avevano costretti i bianchi.
“Per il solo fatto di essere stati trasferiti qui, abbiamo subito molte dolorose perdite. Molti indiani sono morti e anche molta parte del nostro bestiame è morto o ci è stato rubato. I nostri nonni non ci hanno insegnato a vivere fuori dalle nostre terre e noi non riteniamo giusto essere stati spostati qui contro la nostra volontà, così lontani dalla nostra terra. La nostra terra è quella compresa tra i quattro monti ed i quattro fiumi di cui ci hanno raccontato i nostri avi e da loro abbiamo anche appreso che mai saremmo dovuti andare a est del Rio Grande o a ovest del San Juan e io credo che la causa della morte di molti di noi o di molti dei nostri animali sia proprio che ci avete fatto venire qui!
Quando siamo arrivati qui, abbiamo iniziato a scavare lunghi canali e tutti abbiamo lavorato per fare ciò che ci veniva detto di fare. Ma non vi è bastato. Questa terra non è buona e anche se noi piantiamo non cresce mai nulla e gli animali che siamo riusciti a portare con noi sono quasi tutti morti.
Un campo di grano nella terra dei Navajo
Tutto questo non ha senso e noi abbiamo rifiutato di proseguire su questa pista e abbiamo smesso di piantare qualunque cosa. Non cresce nulla, eppure sappiamo bene come si cura la terra e come si coltivano le sementi! Da sempre ci siamo presi cura del bestiame e nella nostra terra non abbiamo sofferto la fame, ma qui non è possibile neppure la sopravvivenza delle bestie, tanto che siamo rimasti quasi senza pecore e cavalli. Niente coltivazione e niente allevamento e così siamo diventati talmente poveri da non poter più comprare niente. Solo alcuni tra noi hanno ancora un piccolo gregge, ma neppure riunendo questi animali si riesce ad avere la minima parte di tutto il bestiame che avevamo nella nostra terra.
Qualche anno fa. quando alzavo il capo vedevo solo greggi intorno a me, ora mi angoscia non vedere più un solo animale intorno a me. Non possiamo più sopportare che tutti intorno a noi, e ho in mente i Messicani e gli altri indiani, siano contro la nostra gente. Non so perchè lo facciano, ma penso che sia perchè noi lavoriamo. Se avessimo i mezzi, potremmo cavarcela meglio di loro, ma siamo poveri.
Il generale Sherman
Abbiamo saputo che c’è una commissione qui e siamo contenti, almeno potremo spiegare perchè vogliamo tornare a casa nostra. Sono un uomo grande e grosso e prima di invecchiare e di ammalarmi desidero rivedere il luogo in cui sono nato. Desidero partire e rivedere il mio paese. Quando saremo ritornati nelle nostre terre vi saremo grati e non creeremo alcun problema. Penso che un generale possa realizzare questo nostro desiderio e noi non vogliamo altro che tu realizzi il nostro desiderio. Tutto il mio popolo desidera questo! Fai che questa speranza che esprimo a voce possa muovere i nostri piedi. Ti parlo, generale Sherman, come se parlassi ad un dio e desidero che tu mi dica se possiamo tornare nel nostro paese.”
Non sappiamo se furono le parole di Barboncito a smuovere il generale di ferro, ma è un fatto che i Navajo finirono per essere accontentati. E’ facile ipotizzare che fosse già stato deciso altrove il ritorno dei Navajo alle proprie terre, ma la comunicazione fu accolta con urla di gioia e lo stesso Barboncito ebbe a dire: “Quando saremo nel nostro paese, tutto tornerà a splendere e i Navajo saranno felici. Nuvole gonfie e scure arriveranno e pioverà a sufficienza. Crescerà il grano in abbondanza e tutti saranno felici.”
Dopo le parole fu il tempo dei fatti e, finalmente, il 1° giugno del 1868 venne siglato il “Trattato di Fort Sumner” che disponeva che i Navajo di Barboncito potessero far rientro a casa dove avrebbero vissuto su una collina in cui sarebbe sorta la loro agenzia. Il lungo viaggio di ritorno vide i Navajo in marcia affiancati dal maggiore Dodd che sarebbe stato il loro agente e da un reparto di cavalleria.
I Navajo conclusero il viaggio nel novembre di quello stesso anno e subito si misero pazientemente al lavoro per costruire le loro abitazioni e sistemare la terra in modo da renderla nuovamente produttiva. Barboncito incoraggiò la sua gente con parole e con il buon esempio, ma non gli rimase molto tempo per godere il ritorno a casa. Nel 1870 morì e i Navajo persero un grande capo ed una sapiente guida in tempo di pace.